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Titani di Acatti: dove il pino sparse il seme e la quercia mi mise al mondo
Scritto da lametino9 Pubblicato in Francesco Bevilacqua© RIPRODUZIONE RISERVATA
I grandi alberi di Acatti sono i miei veri genitori. Mi misero al mondo in una tiepida primavera d’Aspromonte. Si ruppero le acque. E la quercia, mia madre, lasciò fluire la linfa dallo squarcio nel tronco. Mi espulse delicatamente sull’humus odoroso, al fondo della sua cavità. Il Gufo fra i rami lanciò un grido d’avvertimento. E tutti gli abitatori della foresta seppero. Mio padre, il pino, era lì, poco discosto. Osservò serio e trepido il frutto del suo seme. Fremevano le fronde nel vento. Mentre la Martora attendeva, orgogliosa il primo vagito di suo fratello. E il cielo lassù pareva indifferente, con l’eterno viatico di nubi, ed i lenti cerchi dell’Aquila. D’improvviso s’udì un flauto fra le rupi: era il lupo, che diceva al mondo di quel piccolo essere nudo, ancora unto di resina. Da quel giorno, il figlio torna sempre ai suoi genitori, ai suoi fratelli, ai suoi avi, al luogo delle sue origini. Quasi nessuno sa di quello scosceso, pietroso crinale stretto fra Valle Infernale e la Potis. Che dalla grande rupe sfasciata di Pietra Mazzulisà si prolunga fino alla confluenza fra le due fiumare. Dove per due volte dormii all’addiaccio mentre pretendevo di percorrere le buie latebre della Butramo. E che per due volte fu la mia via di fuga dalle gole infide. È così che scoprii il luogo della mia nascita. In un furore di pioggia, tuoni e fulmini, arrancando verso l’alto, le corde fradice e pesanti sugli zaini, gli attrezzi di metallo sinistramente tintinnanti. Furono proprio mia madre, Anticlea, e mio padre, Laerte, a guidarmi fino alla salvezza, ad indicarmi la via nell’oscurità furente. Per questo sono qui oggi. Per sentire l’odore senza eguali del ventre che mi generò. Per carezzare le membra di chi sparse il seme. Ho portato con me amici. C’è stupore sul volto di Antonio. Un sussurro dalla sua bocca: “È il luogo più bello che abbia mai visto!” Centinaia, forse migliaia di pini e roveri immensi, sparsi nella vasta foresta che dalla sommità cala sino ai due fiumi. È qui che Esiodo scrisse la sua Teogonia, con l’amplesso di Gea ed Urano, da cui si destarono Oceano, Ceo, Crio, Iperione, Giapeto, Crono. Qui c’è tutta la loro progenie. Ed ogni volta che vengo scopro l’esistenza di altri titani. Non c’è in Italia una foresta monumentale così grande e selvaggia. Questi giganti di quaranta metri e seicento inverni hanno anima ed intelligenza. Lo aveva intuito Charles Darwin. E poi suo figlio Francis, botanico, il quale il 2 settembre del 1908, all’annuale congresso dell’Associazione Britannica per l’Avanzamento delle Scienze, dichiarò: “Le piante sono esseri intelligenti”. Ma lo aveva compreso ancor prima lo psicologo Gustav Theodor Fechner che nel 1848 diede alle stampe “Nanna o l’anima delle piante”. Ed oggi lo ha dimostrato Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale. “E se le piante fossero mute per noi poiché noi siamo sordi per esse?”, si chiese Fechner. Basta sostare in silenzio ai piedi degli immensi alberi di Acatti, abbracciare il tronco, vagare fra le serpi-radici che, come artigli ghermiscono la terra sulle scarpate, rifugiarsi nelle cavità scavate dai pastori per trarne la “teda”, per sentire le fronde fremere e i rami scricchiolare e gli apici confabulare fra loro. È ora di andare. Lasciamo Anticlea e Laerte nella loro pace. Avremo sempre un posto nel loro cuore. Ed io, figlio lontano, non cesserò mai di venire quassù, nel cuore d’Aspromonte, fra il seme e il ventre che mi donarono la vita.