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Monte Condrò, pietre delle Quadarelle: il drago, l’oracolo e le anime di Rousseau
Scritto da Lametino7 Pubblicato in Francesco Bevilacqua© RIPRODUZIONE RISERVATA
Profumo di bosco: sale nelle nari, invade i polmoni, rigenera il sangue, inonda il cuore e l’encefalo. Odore di fiori di castagno, felci, erba grassa. Una segreta alchimia mi riporta a quand’ero bambino. Le case di pietra del villaggio sulla pendice del Reventino, immerse nel verde. Pastori e contadini con gli abiti della festa, al mattino presto escono dal mistero della foresta, con gli animali scampananti. Scendono alla “hera” di San Bernardo, per rompere le loro vite solitarie e autarchiche, vendere prodotti, stringere legami. Risalgono nel primo pomeriggio, siedono ai tavoli delle due locande di Tomaini. Osservo incantato i volti scuri, le mani ruvide, intente a tagliare pane, cacio, cipolle. Una vera leccornia: le sarde sotto sale, stipate in larghe latte colorate con all’esterno i disegni sgargianti di marinai favolosi. Il vino, rosso come il sangue, fluisce generoso. Poi, ad una cert’ora, tutta quell’umanità fantastica è inghiottita nuovamente dalla foresta, torna verso i suoi reami sconosciuti. Dunque il profumo. Volgo lo sguardo intorno, come per cercare i volti di un tempo. Avverto le loro presenze quassù, poco sotto la cima di M. Condrò. Da dove si squaderna il paesaggio antico di questi monti: Adami, Soveria, Carlopoli, S. Pietro Apostolo; case sparse, a volte sperdute fra le pieghe delle valli; serpeggiare di torrenti e ruscelli; il verde intenso dei boschi; le macchie dei campi coltivati. Tutto cosparso dalla polvere d’oro delle “gurrande”. Lontano, verso nord-ovest, i profili azzurrini del Monti dell’Orsomarso bordeggiano l’orizzonte sotto un cielo plumbeo, che oggi ci ha fatto desistere da un cammino lontano e ci ha donato questa piccola, meravigliosa erranza fra le montagne di casa. Il poggio è costellato di rocce. Pietre delle Quadarelle le chiamano i locali, perché vi sono impresse piccole vasche naturali d’ogni dimensione. Oggi colme di pioggia, piccoli stagni, occhi che scrutano come i draghi della tradizione greca descritti da Norman Douglas in “Vecchia Calabria” e ripresi da Roberto Calasso in “La follia che viene dalle ninfe”.
Lo sguardo del drago che incanta e soggioga, che dispensa la “mania”, la follia buona che viene dagli dei. Osserviamo ogni angolo, ogni recesso del cerchio sacro, dove il drago pratica l’arte della divinazione, la mantica degli antichi greci. È lui l’oracolo che trae auspici dal cielo e dalla terra, che consola gli animi affranti degli uomini. Ed è anche il genio custode dei luoghi. Raffaele Milani in “L’arte del paesaggio”: “Il genius loci è segno di una più ampia sacralità. […] il primitivo dei luoghi sacri era un microcosmo, un paesaggio fatto di pietra, alberi, acqua, ecc. Tali ambienti oracolari, profetici non venivano mai scelti, ma scoperti dall’uomo”. Il cielo scuro lancia sul luogo la sua ombra inquieta. Ci stacchiamo con nostalgia dall’anello di pietre. Scendiamo fra i cerri barbuti, poi nei faggi maestosi. Cona dei Dani, Cona del Corvo, Fontana del Duca e via via, compiendo un largo anello, sino a Valle Cupa. Poi ancora nel cuore della foresta risalendo di nuovo al Passo di Condrò. Certi, ormai, che anche fra le montagne di casa, per dirla con Rousseau, esistono luoghi che sono asili selvaggi e deserti, pieni di quelle bellezze che piacciono alle anime sensibili e sembrano orrende alle altre.