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Africo e l’Aposcipo. La valle del fare anima
Scritto da lametino9 Pubblicato in Francesco Bevilacqua© RIPRODUZIONE RISERVATA
Dal culmine della salita osservo il dedalo di valli e montagne. Forme familiari! Negli anni le ho viste altre volte. Ma oggi sono basito: da quassù stento a riconoscerle, schierate tutte insieme in un grande cerchio di pendici dirupate, culmini selvosi, valloni precipiti, che calano verso il basso, come un vortice immobile. Fatico a dare un nome a ciascun volto. Devo consultare le carte, dar fondo ai ricordi. Seguo il sentiero fra i pini, da cui gli africoti traevano le “tede”, schegge di legno intrise di resina, che servivano, di notte, come luci nelle case ed esche nei camini. Sotto i miei piedi una quantità di sassi colorati, come non ne ho mai visti in Aspromonte: rossi, bianchi, ambrati, verdi, cinabro. La terra è cosparsa di prezioso letame. Scarabei sacri intenti a rotolare le loro palline di sterco. Eccomi sull’orlo dell’immenso. La cresta tricuspidata di Puntone della Chiesa galleggia su un oceano sconvolto dall’uragano. Ma tragicamente fermo, come colto da un incantamento. Monte Scacciarro, Fiumara San Leo, Croce di Dio Sia Lodato, Vallone Forgiata, Serro Gheti, Torrente Aposcipo, Puntone Galera, Torrente Ferraina, Monte Perre, Fiumara La Verde, Monte Iofri, Puntone di San Sebastiano, Vallone Spasola. E poi Campusa, da dove siamo partiti stamane, e Puntone La Guardia, oltre i quali si nascondono le rovine di Africo vecchio. È un mondo fatto di materia: pietre, acqua, terra, alberi, aria, cielo, vento. Ed è un mondo fatto d’anima: ricordi, storie, memorie, vite, spiriti vaganti. È il Mondo degli africoti. Qui erano le loro erranze diuturne, con la neve, la pioggia, l’afa, il fuoco, il gelo. Qui erano i loro coltivi, i loro pascoli, gli stazzi, le capanne di pietre e ginestre, i transiti millenari. Qui erano i poggi da cui vagheggiare il mare, come un luogo fiabesco, impossibile da raggiungere. Quel che vedo con gli occhi è già nella mia anima. Non so se realmente è là fuori. Ma so per certo che è dentro di me. Quindi è me che vedo quando osservo tutto questo. Un paesaggio è sempre una biografia dell’anima! Ora, da questo balcone sull’abisso avverto che i filosofi, per secoli, hanno bestemmiato su fisica e metafisica, hanno messo contro materia e spirito. Se solo fossero venuti quassù, per una volta, forse avrebbero chiesto perdono agli dei. Non tutto ciò che esiste può esser ridotto a un numero, a un calcolo, a una misura. Esso è anche l’invisibile oltre il visibile, ciò che il tuo cuore ti suggerisce in forme vaghe, segrete, misteriose. E poi, come potrei fare a misurare tutto ciò che il mio sguardo abbraccia ora, in questo istante. E che comprende non solo il dedalo fisico di rilievi e burroni che mi appare dinanzi, ma anche il labirinto psichico che è dentro di me. Inconoscibile, incalcolabile, inimmaginabile. In quel “fuori” c’è anche un “dentro”. E nel mio “dentro” c’è anche un “fuori”. “Nel labirinto non ci si perde. Nel labirinto ci si trova. Nel labirinto non si incontra il Minotauro. Nel labirinto si incontra se stessi” scrive Hermann Kern. I pastori di quassù contavano i formaggi da consegnare ai padroni segnando tacche con i coltelli sui bastoni. Ma per essi bastava un po’ di pane raffermo fra i denti, un po’ di ricotta sulla lingua, uno sguardo verso il luccichio del mare per comprendere l’infinito. C’è nell’aria una musica ancestrale: folate di vento, stormire di fronte, clangore di campanacci, pigolii di poiane, franare di pietre. Mi sovviene John Keats “Chiamate, vi prego, il mondo la valle del fare anima. Allora scoprirete a che serve il mondo”.