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Est delle Ciavole. L’oriente verso cui orientarsi
Scritto da lametino9 Pubblicato in Francesco Bevilacqua© RIPRODUZIONE RISERVATA
Sospesi su una ripida prateria. Come insetti nell’immenso. Sotto, l’abisso, precipite e sfasciato. Sopra, un torreggiare di rupi, stagliate come guglie di templi e fortezze sull’azzurro del cielo. Pini mostruosi lanciano le loro membra di oranti verso il vuoto. I piedi vacillano sull’erba infida. Due cuori, i nostri, spersi nell’infinito: un sogno! Cerchiamo un passaggio ad est. Se un paradiso terrestre è mai esistito doveva avere le sembianze della parete est di Serra delle Ciavole. Certo, non è una vera “parete”: non una sola struttura a perpendicolo, ma tante strutture, e tante anime tenute insieme da un labirinto geologico. È verticale, orizzontale, obliqua. È erba e pietra. È ordine e caos, armonia e dissonanza, luce e ombra, riparo e vuoto. È salvezza ed è pure pericolo. Non poteva che essere ad est, ad “oriente”! Perché solo lì ci si “disorienta”, e ci si “orienta”. Orientarsi ad occidente è un ossimoro! Si, lo so che i punti cardinali sono quattro, con le loro direzioni intermedie. Ma l’oriente è sempre stato “la” direzione, “la” terra, “il” paese, “il” luogo favoleggiato, per antonomasia. Per questo si dice “orientarsi”, trovare il proprio oriente, la terra dove si leva il sole, che rinnova la luce dopo il buio della notte.
Oriente è anche la direzione verso cui viaggiavano i pellegrini del medioevo, in cerca della Terra Santa. Ad oriente sono rivolte le absidi delle chiese bizantine. L’oriente vive nel fondo dell’anima di tanti occidentali sognatori, come noi. Ai quali l’Occidente sta stretto. Che cercano sempre il loro Oriente. Oggi compiamo, appunto, un’erranza onirica. Siamo scesi nell’apparente nulla, dalla cresta nord della montagna, attratti da un passaggio ad est. Quell’est sul quale tracciai, da solo, una mia via di risalita (nulla di alpinistico, sia chiaro) pochi giorni prima della nascita di mia figlia. Anche quel girono camminai in un sogno! Oggi siamo in due a sognare: “Francesco” entrambi. Nome impegnativo. Che certo non meritiamo. Se non, forse, per quel vivere anche noi, col cuore e con la mente, fuori dal mondo eppure immersi nel Mondo, come quell’altro Francesco. Del quale si cercò di cancellare l’eresia, la follia, il sogno, l’Oriente. I due insetti vagano sempre più affascinati, sempre più intimoriti, sempre più increduli. Su quella linea nell’erba grassa sospesa nel vuoto, pieno di bellezza, da cui si osserva il vero infinito. Non l’(in)finito universo, o i multiuniversi ipotizzati dall’astrofisica, ma l’infinito reale, tangibile, che un insetto come me può percepire, se solo lo vuole: la vallata del Raganello, la Fagosa, la Jacca di Varrili, le timpe, l’ovale dell’Arco di Sibari, lo Sparviere, Timpa di Pietra Sasso, la valle del Sinni. E i paesi sparsi come animali acciambellati sulle loro ambe di roccia. E le migliaia d’alberi che sorgono dalla terra in schiere fitte. E le masserie isolate in mezzo ai campi arati. E il cielo dove troneggia Apollo Helios che ci trafigge gli occhi, con i suoi dardi infuocati. È l’infinito dove vivere, soffrire, gioire, morire. Non l’infinito verso cui scagliare l’illusione dell’uomo che vuol farsi Dio. Il passaggio ci si nega, infine. E siamo costretti a risalire, faticosamente, sulla cresta eletta, ugualmente bella, ma che guarda anche a occidente. E tuttavia abbiamo trovato “il” paesaggio che i nostri cuori cercavano: quel giardino, quel paradiso seducente e periglioso ove è custodita l’origine di tutte le cose. Che mai nessun uomo che calpesti la Terra potrà svelare. Come Kafka, non mi domando perché l’uomo abbia perduto il paradiso terrestre. Mi domando perché non faccia nulla per ritrovare la strada smarrita e tornarci.