© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Da quassù l'Aspromonte è un sogno. Con la minaccia di tempesta che solca il cielo. E le nubi che vanno, vengono, rilucono, rabbuiano, ingrossano, disfano ... come in cima ad un vulcano in eruzione, che emerge dall'oceano. Tutt’intorno un arcipelago galleggiante sulla lava fusa. Paesi, case, coltivi, fiumare, gole, montagne, colline, frane, boschi, prati, rupi. A perdita d’occhio. L'orizzonte, a nord, è la vetta d'Aspromonte, stacciata dal nero del temporale che infuria. A sud è lo Ionio, uno specchio traslucido. Monte Scapparrone si chiama l'apice di quest'isola tellurica sul margine orientale d’Aspromonte. Ripido e seghettato come una lama. Dirupato e precipite come un rilievo andino. Qui è l'aria delle montagne del Sud: i profumi familiari dell'origano e delle ginestre, il sentore penetrante delle capre. Le vedo. Un centinaio. Precedute dal tintinnare dei capanacci. E dai belati estenuanti delle madri e dei piccoli: “dove sei cucciolo?”, “sono qui mamma”. Melodia ancestrale. Che rende potente il silenzio onirico che ci circonda. Una lunga fila, che sbuca dalla macchia di lecci e felci, lungo la pista segreta, risalente dagli stazzi bassi, a Papaleo. Nel sogno vedo dapprima degli apache della Sierra Madre che fuggono dai soldati blu. Quando arrivano i grossi maschi, l’immaginazione li trasforma in un branco di stambecchi, fieri e guardinghi. Poi, allorché i loro occhi demoniaci si fissano nei miei, vedo ciò che devo vedere: l'incarnazione di divinità selvagge. Carlo Levi scriveva del capro: "un Satiro fraterno e selvatico in cerca d'erba spinosa sui precipizi". Anche Cesare Pavese intuì questa teofania delle capre, a Brancaleone - laggiù, proprio nella pianura sotto di noi - quando fu inviato al confino dal fascismo. Belati e scampanellii, calpestio di zoccoli sul terreno, fruscio di arbusti urtati … creano una sospensione temporale, un’attesa stupita. Il suono del silenzio, come diceva una vecchia, struggente canzone di Simon and Garfunkel. Siamo viandanti del silenzio. Soli, distanti, trasognati. E’ il giorno dei candelabri dei tassi barbassi, dai fiori gialli e dalle foglie cenciose. E’ il giorno delle irsute testine viola dei cardi, con un pullulare di insetti che fanno l’amore e suggono il nettare.
Sulla cima delle rupi sberciate è, nel sogno, una vertigine. Mille metri più in basso, il labirinto di pietra della Fiumara La Verde, insondabile e oscuro. Più in alto i paesi: Samo, Pietrapennata, Africo vecchio … come rovine di un’antica civiltà perduta. Pietra Casteglia è un borgo addormentato, Monte Iofri un castello turrito. Poi il ritorno, solcando la pianura che prima giaceva, inerme, ai nostri piedi. Motticella, un grumo di case sfasciate a picco sulle gole della Fiumara San Pietro. La tristezza dell’abbandono contrasta con lo sfavillare gioioso degli oleandri sul greto. Tino ha vent’anni. E’ venuto al paese per sorvegliare la casa dei nonni. Fa il cameriere a Moena, in Trentino, ma ha chiesto di entrare nell’esercito. Un manifesto annuncia il lutto di Rocco, settantaquattro anni, undici figli sparsi su tutto il Pianeta. Fra i pochi abitanti un pastore che sta preparando le fuscelle per la ricotta. Poi riattraversiamo il mondo dei dimenticati, attorno al quale stanno i paesi inferi: Rocca Armena, Brancaleone, Ferruzzano … E quelli che sono ancora vivi, ufficialmente, ma che stanno per affondare anch’essi nel mondo di sotto. Un groppo in gola, di commozione, di malinconia. Ma c’è una soglia della commozione e della malinconia che non devo oltrepassare, per non perdermi anch’io in quella galassia di rovine. E sperare invece. E cantare la speranza anche quando essa sembra muta. Perché è dal suono del silenzio che rinasce la speranza.