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I grandi abeti di Eduardo e Simonetta: almanacco di un mondo semplice
Scritto da Lametino 5 Pubblicato in Francesco Bevilacqua© RIPRODUZIONE RISERVATA
Anche loro, in fondo, sono dei rifugiati! Lui, Eduardo - bel nome d’assonanza goethiana (ricordate “Le affinità elettive”?) -, guida naturalistica, viene da Celico, il paese natale di Gioacchino de Fiore. Lei, Simonetta, insegnante di Inglese, viene da Toronto, di là dell’oceano mare. E anziché prendere un appartamento a Cosenza e passare il loro tempo fra uffici e centri commerciali - come fanno molti dei nostri giovani - hanno adottato il rudere di un casello Anas, lungo la vecchia statale per la Sila, sommerso da una fitta foresta di conifere e latifoglie. L’hanno ristrutturato. Senza fronzoli. Senza orpelli. Ne hanno fatto un rifugio: il Rifugio Casello Margherita. Simonetta ed Eduardo, con i loro due bimbi, vivono lì tutto l’anno, a 1300 metri di quota, sull’orlo occidentale della Magna Sila di Virgilio. Anche quando, per almeno tre mesi, loro ospiti fissi sono la neve e il gelo. Gli altri ospiti, quelli umani, vengono da tutt’Italia e anche dal resto d’Europa. Vengono a fare vacanza in un luogo da cui qualunque calabrese lobotomizzato fuggirebbe immediatamente. Ecco perché Simonetta ed Eduardo sono dei rifugiati: hanno chiesto asilo politico agli alberi, alle montagne, ai fiumi, ai lupi, ai caprioli, ai paesaggi, ad una civiltà antichissima, che pareva morta e sepolta. E a quei fiori di sambuco che, impanati e fritti, hanno reso squisito il nostro ristoro dopo l’ennesima erranza. Partiamo proprio dal Rifugio Margherita. Oggi vado al traino. Capita di rado. Solo con persone di cui mi fido. Eduardo è uno di loro. Questa porzione della Sila è poco nota. Perché sta oltre l’orlo esterno del grande altopiano. Che Manlio Rossi Doria calcolò essere esteso ben 170.000 ettari. Siamo sulle scoscese pendici che dai 1700 metri del crinale di Serra Stella, calano verso le valli tributarie del Crati. Che costituiscono il vastissimo orlo circolare dell’altopiano e andrebbero aggiunte alla misura. Qui, dall’epopea dell’ultima grande migrazione, non viene quasi più nessuno. E’ uno di quelli che io chiamo “luoghi perduti”: dimenticati dalle comunità che per secoli hanno vissuto dentro di loro e grazie a loro. Eduardo comincia bene: ci fa scendere verso il basso, e non, come si aspetterebbe chiunque, salire verso l’alto. E questo mi piace: significa che ha in mente una piccola erranza non codificata dai comuni canoni dei trekker consumistici e modaioli che imperversano ormai dappertutto. Passiamo fa pini e castagni, per
attraversare più a valle la vecchia statale. E lì sì, cominciare la vera salita. Dal sentiero scavato nella dura roccia cristallina di questo pezzo di Alpi scaraventato nel cuore del Mediterraneo, si scorge in lontananza lo sprawl urbano della valle del Crati, che nessun pretestuoso ponte di Calatrava – come quello realizzato a Cosenza - potrà mai nobilitare. Per fortuna possiamo volgerci a monte e incantarci dinanzi ad un ruscello, come in un carme di Teocrito. Ecco l’Orto di Parisi, con una tipica baracca di tavole ed il ceppo di un enorme castagno. E poi la foresta grande. Di faggi e abeti bianchi. Ci aggiriamo fra i Titani. Avevo sempre guardato con desiderio, da lontano, quelle abetine che macchiano di verde scuro il velluto del bosco di Serra Stella. Oggi Eduardo è stato il medium che mi ha messo in contatto con dei primevi del bosco, sopravvissuti alla titanomachia distruttiva dei grandi tagli del ‘900. Ecco Iapeto, che si biforca a due metri da terra. Ecco il mostruoso Coio. Ed ecco Iperione, immenso: da un lato una bassa entrata conduce al suo interno; dall’altro enormi radici lo serrano alla scarpata. Ripida è la salita nella Taiga silana, costellata di una miriade di piccoli abeti. Sino alla macchia di Erboso, residuo degli ampi pascoli che costellavano i crinali e le valli della Sila. Il bosco si riprende ciò che l’uomo gli ha rubato. E poi di nuovo giù, colti da un’ebbrezza pericolosa per dei comuni mortali. Eduardo procede ora senza sentiero. Annusa l’aria, segue una pista di animali, cerca il segno. Iconemi, li chiama Eugenio Turri nei suoi libri sull’antropologia del paesaggio. Sono segni distintivi dei luoghi, che, per le loro forme inconsuete sono divenuti simboli. La Pietra di Margerita, maestosa rupe oggi sommersa dal bosco ma un tempo certamente visibile da lontano, nasconde una leggenda di tesori e sacrifici. Orientava i transiti fra i paesi e l’altopiano. Indicava la via. Rassicurava gli sguardi.
Qui Eduardo ha condotto a fatica i vecchi del paese, come in un pellegrinaggio della memoria. Per riannodare l’antico legame. L’erranza termina al rifugio, dopo un lungo anello, nel tepore della nostra amicizia. La piccola casa è una sana utopia. Anzi, è un’utopia reale e minimale. Nel modo in cui la intende Luigi Zoja. E’ una piccola università dove si pratica la “slow culture”, dove “si rifiuta l’eccesso di competitività, di estroversione e di modelli collettivi della società post-moderna. Per loro [Eduardo e Simonetta] [e per me] l’introversione non è una forma di patologia, ma una normale e fondamentale possibilità di essere uomini”. E’ un “almanacco di un mondo semplice” come scriverebbe Aldo Leopol, non compromesso dalla bulimia filosofica che imperversa, non complicato da bisogni indotti, non contaminato da un sapere artificioso e professorale. Eduardo, Simonetta e i titani della “loro” grande foresta dietro casa sanno, come me, che i nostri luoghi, i nostri paesaggi, le nostre relazioni non sono merce da esporre nella vetrina di un ipermercato. Sanno, come me, che i luoghi sono l’essenza stessa della vita delle nostre comunità. E noi non vendiamo la vita delle nostre comunità! Potete comprare la terra per imbrattarla, depredarla, insozzarla … ma non comprerete mai l’anima dei luoghi. E nemmeno le nostre anime malinconiche e vere.