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Neo-populismo e neo-sovranismo vittoriosi negli Usa e in Gran Bretagna
Scritto da Lametino 5 Pubblicato in Pino Gullà© RIPRODUZIONE RISERVATA
“Il neo-populismo si appella a settori sociali non organizzati, oltrepassando le associazioni già esistenti. Proprio questo appello l’accomuna alle dottrine neoliberiste, nell’intento di scardinare la posizione di privilegio acquisita (…) [dalle] rendite parassitarie di sindacati, cartelli di imprese, burocrati e politici di professione”. Dalle 12 pagine dedicate al populismo e al neo-populismo dal Dizionario di politica di Noberto Bobbio, Nicola Matteucci e Gianfranco Pasquino ho scelto questo breve passaggio in quanto, a mio avviso, spiega sinteticamente il fenomeno politico in questione che si rafforza in società diventate poco coese e in difficoltà economica. Ne L’Invidia da passione mobilitante a detonatore di rivolta di Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University, una citazione all’inizio: “Ad un certo punto dello sviluppo storico, le classi si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono o li dirigono, non rappresentano più la loro classe o frazione di classe. E’ questa la crisi più delicata e pericolosa, perché offre il campo agli uomini provvidenziali e carismatici” (Antonio Gramsci, Quaderni del Carcere). Negli Anni ’20-30 arrivarono Mussolini e Hitler. Oggigiorno, per nostra fortuna, sono personaggi del passato; ma nella trascorsa canicola estiva ho sentito qualche politico chiedere al popolo “pieni poteri”. Si spera siano slogan da campagna elettorale. La docente della Columbia University sostiene che “la politica populista (…) si regge solo sulla conquista dell’audience, su narrative attraenti che raccolgono consensi con velocità e con velocità li perdono”. Fanno di tutto per conquistare l’elettorato, anche con le bufale, le cosiddette fake news, usate abilmente, per esempio, da Donald Trump. Ricordo, fra tutte, l’attentato in Svezia mai avvenuto. Ma l’attuale presidente degli Usa ha vinto le elezioni anche per altre abilità: è stato antipaticamente televisivo, simpaticamente per i suoi seguaci (followers), bucando lo schermo e facendo sognare quell’elettorato americano deluso o trascurato dalla classe dirigente fino ad allora al potere. Il tycoon è diventato, così, leader non solo dei conservatori, ma anche dei ceti impoveriti; proprio lui, figlio di un ricco investitore immobiliare, rappresentante di una parte dell’élite newyorkese e nipote di “immigrati europei” (nonno, guarda il caso, tedesco in cerca di fortuna) che, appena eletto, alza il muro tra Usa e Messico per impedire l’emigrazione dei “poveri cristi” sudamericani, emigranti per necessità, in vista di un futuro migliore. Sondaggisti e giornalisti lo davano perdente e vincente Hillary Clinton, toppando clamorosamente; solo Alan Lichtman, uno storico, aveva previsto la vittoria del tycoon. Potenza del populismo: un candidato con scandali sessuali, aggressivo verso la stampa, new entry in politica, eppure vincitore in modo clamoroso. Ha fatto successo America First (Prima l’America), slogan nazionalista, sovranista, patriottico, copiato da alcuni leader nostrani di destra durante le campagne elettorali. Sono bastati messaggi semplici e forti: “Make America Great Again! (Facciamo di nuovo l’America grande!); Drain the swamp (Bonifichiamo la palude della corruzione)”. Continuamente ripetuti nei talk show televisivi, nei social e tanti Americani si sono convinti. Antipatia insieme a carisma ed emozione scaturiti dal messaggio. Al contrario la campagna dei democratici non è stata in grado di arrivare all’Americano deluso dalla politica tradizionale (dell’establishment). Ed Hilary Clinton non ha avuto la capacità di bucare lo schermo in modo tale da coinvolgere il suo elettorato per sopravanzare Trump. Ad Hillary non sono bastate l’esperienza maturata e la competenza acquisita a fianco di Obama. Al contrario, Trump è riuscito perfino a raccontare “Crooked Hillary”, ovvero “Hillary imbrogliona”. Alla fine: ha vinto lui, hanno vinto i repubblicani; ha perso Hillary Clinton, hanno perso i democratici. Diventato presidente degli Usa, così si è espresso nella 74esima assise internazionale dell’Onu dell’autunno scorso: “Il futuro non appartiene ai globalisti, è dei patrioti” (la Repubblica 25 sett. 2019).
Oggi sembra non avere rivali anche per le prossime elezioni negli Usa, considerate le alte percentuali ottenute nelle primarie repubblicane dello Iowa e del New Hampshire. Divisioni fra i democratici; per adesso sembra favorita la Sinistra democratica americana con Bernie Sanders. Trump è riuscito a venire fuori dall’ impeachment (la messa in stato di accusa), grazie al voto del Senato americano a maggioranza repubblicana. Adesso vuole che si cancelli totalmente la procedura. Si è subito vendicato verso chi ha testimoniato contro: espulsione di Mit Romney, repubblicano, per aver votato come i democratici “nell’accusa di abuso di potere per l’affaire dell’Ucraina” (Il Sole 24 ORE); silurato il tenente colonnello Alexander Vindman che ha svelato i particolari della telefonata al presidente ucraino; licenziato Gordon Sondland, ambasciatore americano presso la Ue, per avere ammesso “lo scambio di favori tra Donald Trump e il presidente ucraino” Volodymyr Zelensky. Il commento di Riccardo Barlaam su Il sole 24 Ore: “La vendetta di Trump è arrivata, nonostante l’assoluzione piena. Una decisione più da autocrate di un Paese africano che da leader del Paese più potente del mondo, indicativa dello stato di salute della democrazia americana”. Sempre da Il Sole 24 ORE a firma di Roberto Galullo e Angelo Mincuzzi: “Gli Usa sorpassano la Svizzera: sono il secondo paradiso fiscale del mondo dopo le isole Cayman”. Edito nel 2017 da Raffaello Cortina, Populismo digitale di Alessandro Dal Lago, già docente di Sociologia nelle università di Milano, Bologna, Genova, è un libro importante per comprendere il cambiamento della politica con l’avvento del web. Nell’ultimo capitolo l’autore rivela che Boris Johnson, l’attuale premier britannico, qualche anno fa aveva pubblicato un saggio in cui si augurava una Ue forte che accogliesse perfino la Turchia. Poi ha cambiato opinione e si è schierato con i fautori della Brexit: “Ha intravisto l’opportunità di subentrare a David Cameron in caso di vittoria della Brexit. Con l’ascesa di Theresa May ha dovuto accontentarsi del ministero degli Esteri, ma nulla esclude che riesca prima o poi a subentrare anche a lei”. La profezia dello studioso si è avverata. Brevissima cronistoria: dopo il risultato negativo del referendum sull’adesione permanente del Regno Unito all’ Ue, David Cameron si era dimesso. E’subentrata Theresa May, ma ha governato all’incirca due anni e mezzo; ha dovuto lasciare l’incarico perché il suo piano morbido di uscita dall’ Unione europea è stato bocciato per ben tre volte dalla Camera dei Comuni. Incaricato dalla regina Elisabetta di formare il nuovo Governo, Boris Johnson ha fatto di tutto e di più, scatenando turbolenze incredibili nel Parlamento inglese: richiesta di sospensione dei lavori del Parlamento, concessa dalla Regina, per bloccare l’uscita del Regno Unito dall’Ue senza accordo; crollo della sterlina; proteste, raccolta di firme (un milione) contro la sospensione; dimissioni a catena di parlamentari importanti; decisione unanime della Corte Suprema che ha dichiarato illegale la sospensione del Parlamento fino al 14 ottobre, sulla stessa lunghezza d’onda dei ricorsi presentati; ma Boris Johnson non si è arreso, ha cercato a tutti i costi l’uscita per il 31 ottobre, raggiungendo l’intesa con l’Unione europea; subito dopo ha chiesto di votare alla Camera dei Comuni che, però, ha rinviato a data da destinarsi; di conseguenza costretto a chiedere all’Ue ancora un rinvio con l’impegno di fare l’impossibile per uscire il 31 ottobre; ma i 27 membri dell’Unione europea hanno concordato la Brexit per il 31 gennaio 2020; nel contempo ha convinto l’opposizione per nuove elezioni; approvate dalla Camera e fissate per il 12 dicembre scorso. Il responso dell’urna è risultato chiaro: l’elettorato ha scelto Boris Johnson che ha ottenuto una clamorosa affermazione e la maggioranza assoluta. Altamente simbolica la vittoria al seggio Workington in mano ai laburisti dal 1918. Il risultato è stato netto rispetto a Jeremy Corbin; il leader della sinistra britannica ha mostrato tutta la sua debolezza (accuse di antisemitismo rivolte al Labour Party e ambiguità per ciò che concerne la Brexit).
Sulla fragilità della Sinistra inglese Johnson ha costruito la sua vittoria. Ha poi intercettato il mal di pancia di ampi settori della società britannica. Il resto è stato fatto da una narrazione efficace: Boris Johnson ha promesso di conquistare nuovi mercati nel mondo compensando, così, la perdita di quelli europei. Una specie di sovranismo imperiale quasi nostalgico, come ai tempi della regina Vittoria. L’elettorato ha premiato il leader eccentrico, ma determinato a perseguire, secondo le sue convinzioni, la coerenza. Pur facendo parte dell’élite ha indossato i panni del populista. Non sempre il populismo è anti élite. Bisogna anche aggiungere che Nigel Farage, il leader dell’Ukip, e Theresa May gli hanno spianato la strada. E a fine gennaio il Parlamento europeo ha approvato l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Notizie da Il Sole 24 ORE: “La Gran Bretagna [sta] diventando una meta sempre più ambita anche per riciclatori e criminali…”. E’ iniziato il repulisti nel governo britannico: si è dimesso il Cancelliere dello Scacchiere e altri sei ministri licenziati, non in linea con la Brexit. Solo la Scozia gli dà dei problemi, volendo staccarsi dal Regno Unito e rimanere nell’Ue. Dopo il periodo di transizione, giro di vite per entrare in Gran Bretagna. Il visto sarà concesso a lavoratori con qualifiche carenti nell’Isola e a coloro che conoscono e parlano la lingua inglese. Non avrà problemi chi riceve offerte di lavoro con un salario superiore alle 25 mila e seicento sterline l’anno. Priorità per scienziati, ingegneri e accademici. Tempi duri per quei ragazzi italiani che vorrebbero andare in Gran Bretagna per imparare l’inglese lavorando! Così il ministro dell’Interno britannico Prit Platel: “La cosa giusta è che le persone parlino inglese prima di venire nel nostro Paese”. Laddove in passato il parlamentarismo non ha avuto avversari, appunto negli Usa e in Gran Bretagna, ora ha vinto il populismo; sono stati premiati due leader considerati dalla maggioranza della stampa inaffidabili ed eccentrici; ma con messaggi semplici ed efficaci e con comportamenti politicamente non corretti (secondo l’accezione che ne dà l’establishment) sono riusciti a ribaltare i pronostici. E adesso governano. Insomma, sono i protagonisti di un nuovo percorso… e gli studiosi, Alan Lichtman e Alessandro Dal Lago, avevano previsto tutto.