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E' presto quando iniziamo a calcare il vecchio sentiero. Un cielo latteo sparge luce diafana sul mondo verde. I faggi incorniciano la via. Scendiamo silenziosi nel mondo appartato della valle. Malinconia (e algodistrofia) mi portano in Sila, per ricevere conforto. Nel luogo dell'altopiano che più amo in assoluto: l'alta Val di Tacina. Non vi è mai giunta una strada asfaltata. Non vi è stato costruito un villaggio. Troppo isolata. Troppo fredda. Chi vuol avere un'idea di com'era la Sila secoli fa deve venire qui. Sul fondo della valle i prati s'incurvano in tutte le direzioni. Fioriti come non mai. Mentre i faggi in altura non sono ancora usciti dal sonno invernale. Solitudine e silenzio. C'è un'Italia che s'affolla, consuma suolo attorno alle città. E c'è un'Italia che si spopola, restituisce libertà alla terra, sulle montagne. Gli unici segni evidenti dell'uomo sono due vaccherie dirute. Il resto è boschi e prati e poiane e rane e grilli, e anatre. E tutto un trillare di piccoli uccelli, un frinire di insetti. E' una distesa di viole, margherite, orchidee, botton d’oro, non ti scordar di me, narcisi. Soli nell'immensità. Per questo ho scelto la valle. Avevo bisogno di cercarmi. E ritrovarmi. Nella taumaturgia della Sila. Dove il cammino è pellegrinaggio. Dove la bellezza è preghiera.