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Attraversare Cirella è come penetrare un mondo, come passare nell’aldilà. Le vedi da lontano, le montagne. Torri, picchi, gole. Rocce grigie, rosa, di graniti, scisti e strani conglomerati che paiono sabbia grossolana raggrumata. Con pennellate di licheni, gialle ed ocra. Boschi di lecci, roverelle, farnetti, sino alle faggete delle sommità. Le vedi dalle lingue detritiche delle fiumare e dalle colline calancose che stanno subito alle spalle della costa ionica. Per accedere a quel mondo, a quell’aldilà, devi superare i paesi. Case aggrappate a qualche “laccu”, i pianori terrazzati che talvolta interrompono le linee abrupte dei rilievi. A Cirella di Platì, puoi infilarti in stretti budelli fra le case, oltre le quali ti trovi improvvisamente sotto quelle forme fantastiche. Fra i Tre Pizzi, il Pinticudi, il Macalandrà a destra, e Rocce degli Smaleditti, Rocce dell’Agonia e Aria di Vento a sinistra.
Devi alzare il naso all’insù per vedere Monte Jacono. Storcere il collo all’indietro, schiacciare la cervicale. E non penseresti mai di poterci salire su in direttissima se non ci fossi già stato tanti anni fa. Quando andavi su, solo perché t’era presa la fissa di seguire le capre. Oggi è un pastore ad indicarci “u viuolo”, ripido e sdrucciolevole, dove sono passati gli animali. E subito è come avessi preso un ascensore trasparente. Che ti spalanca, sotto, le gole di Abbruschiato e lo skyline fiabesco di Monte Pinticudi. E vedi gheppi andare e venire dalle pareti verticali, sberciate, tagliate da fenditure paurose. E sali lungo una cresta pazzesca che ti apre anche l’altro versante. E con cautela giungi sull’anticima. E il vento ti assale furioso. E vedi la rupe nocchieruta della vetta. E giri lo sguardo tutt’intorno. E il paesaggio è una vertigine. Pensi che non puoi tirare la corda con gli atri “erranti”, ignari e attoniti di fronte a tanta potenza. Soggiogati: ecco la parola giusta. Siamo soggiogati, incantati, intimoriti. Questa parte dell’Aspromonte ti fa perdere il respiro. Non è solo per le forme. Non è un fatto estetico. E’ perché sai che quel dedalo di abissi e di rupi, quel labirinto di foreste, per secoli, è stato battuto dagli uomini. Di cui oggi restano gli epigoni di una cultura, di una civiltà. In basso a sinistra, sotto quello che Caterina ha chiamato “the wall”.
C’è uno stazzo e un piccolo “laccu”, con qualcuno intento a lavorare. E’ il momento di scendere. Non è facile aggirare la serie di muri obliqui che potrebbero sbalzarti giù in men che non si dica. Diventa un’erranza. Ecco un terrazzo con i resti di un rifugio di pietre. Dev’esserci un sentiero laterale che porta verso lo stazzo. Ma in mezzo ci sono frane e canaloni. Passiamo come anime pencolanti nel vuoto. Ci accoglie la dolcezza dei capretti dagli occhi acquosi, lasciati al sicuro nel loro caldo ricovero. Il resto del gregge è chissà dove a scorrazzare fra le ginestre spinose e le eriche. Lo stazzo, come immaginato, ha una via comoda che scende verso la valle. Riconosco la stradina. Una curva ed eccoci nel bel mezzo di una rovina incaica. Non piramidi e templi, ché qui nessuno ha mai visto ori e ricchezze. Ma delle case che s’affacciano come un piccolo Machu Picchu sulle gole della Ficara Ianca. Uno dei luoghi più belli al mondo! Il Colaciuri, visto da qui, è un altro Pinticudi, una piramide, lui sì, ma naturale. E poi un semicerchio di rupi e valloni. Sovrastati! Qui siamo sovrastati. Ciò non di meno, eccoci a percorrere la mulattiera scavata nella roccia che ci porta a vagare nelle gole di Malacaccia. Per ore, persi nei nostri pensieri fusi con il potere dei luoghi. Seppellite il mio cuore a Cirella di Platì!