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Ora capisco. Tutto mi è chiaro. I miei cammini, la mia stanzialità, le mie erranze sono innanzitutto riti: ripetizioni di miti. E i miti? I miti sono racconti fondativi di una comunità. Illuminazione di stasera, domenica, mentre ascolto don Andrea e la sua dolce omelia. Nell’anno liturgico, la prima domenica di giugno si celebra l’ascensione di Gesù. Andrea spiega la necessità di ripetere annualmente, da secoli, gli accadimenti della fede, per rinnovare il racconto evangelico, che è il “mito” fondativo del cristianesimo. Per lui sono verità rivelate, non miti. Ma a me queste quisquilie teologiche poco importano: mi basta possedere il senso religioso della vita. Che significa “credere” che dietro la realtà fenomenica si celi una realtà invisibile e che il nostro scopo sia armonizzarci quanto più è possibile con essa. In parole povere: credere nel mistero e non pretendere di giudicarlo (e nemmeno rivelarlo) con la ragione, con la scienza, con la tecnica. E i modi per produrre questa armonia sono, per l’appunto, i riti, ripetizioni cicliche di miti.
La storia dell’umanità ne è intrisa, ovunque: non sfugge nessuna etnia, nessuna cultura, come testimonia Eliade. Sono due domeniche che, a causa del maltempo, limito il mio rito del cammino festivo, la mia messa domenicale, la mia preghiera di passi fra le foglie e sull’erba, ad un luogo vicino casa che mi consentirà di ripiegare in breve in caso di temporali. Esco, nonostante il meteo, per via della mia tossicodipendenza da cammino, da montagna, da natura. Ma solo quando odo il cuculo che già domenica scorsa mi aveva salutato con il suo malinconico richiamo, ben nascosto nel folto del bosco, capisco che non si tratta di metadone. E avverto, invece, che sto ripetendo un mito: il racconto del luogo fondativo della mia comunità. E comprendo che questo luogo che ho percorso tante volte sarà anche oggi diverso, avrà bellezza nuova da dispensare a mio beneficio, ed a beneficio di tutte le creature di questo piccolo grande centro del Mondo fatto di terra, aria, acqua. Giungo esattamente nel centro, mentre la pioggia strepita sulle alte fronde dei faggi. E la foresta si vela di nebbie. È un momento senza tempo, un momento eterno. Come eterno è il mistero. Il mio essere pulsa nel cuore del rito. In completa solitudine, nel silenzio più assoluto, la nebbia sfuma i profili della materia che mi circonda. E comincia la sua danza fra le navate. La nebbia è una creatura viva, la vestale che custodisce il tempio, l’oracolo che divina. E viene sul mio corpo, passa dinanzi agli occhi, entra nel mio sangue. Ecco, alzo il calice del mio sguardo, sprofondo nel mistero della vita, levito verso la volta del bosco. Il mito è tornato