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Gli aceri dalla rosea corteccia sussurrano un antico poema. Compongono un canto. Gli ontani fremono, con la fronte rivolta al cielo di cobalto. Meditano. I cerri espongono la loro corteccia argentea e rugosa. Emanano coraggio. Lontano, un cuculo ripete senza sosta il suo canto d’amore. Echeggia di versi e di suoni la fonosfera del bosco. Ai piedi degli alberi brillano, come piccole mani racchiuse, gocce di sangue e di vino. Ognuna ha pochi, grandi petali setosi che avvolgono un piccolo sole screziato. La peonia di questi luoghi è una dea, la Dea Scarlatta. Mostra i fiori solo pochi giorni l’anno, a maggio. Si affretta a comporre la sua poesia di fine velluto, per poi tornare a celarsi nel verde indistinto dell’erba.
Iniziamo il nostro cammino quando il Piano di Casiglia è ancora madido di rugiada notturna. Come fiocchi di neve i fiori s’ammassano sui biancospini. Sullo sfondo, oltre l’erta della foresta, le moli glabre e pietrose della Mula e della Muletta. Teneri i passi sul terreno pregno di pioggia. Commosso lo sguardo in questo tempio trafitto da lance di luce. Poi la fatica. L’antica mulattiera delle greggi transumanti serpeggia ora nella faggeta, sul fianco del vallone ombroso. Ecco un vecchio amico: il grande faggio con le radici simili a lunghe dita che affondano nella terra che ritrassi in una nebbiosa mattina di tanti anni fa. Ricordo quel giorno: partimmo da San Sosti, prendemmo il sentiero di Due Dita, attraversammo Casiglia, salimmo a Il Campo, scendemmo al Varco del Palombaro e rientrammo in paese lungo le gole del Rosa, ininterrottamente, per una decina d’ore nella nebbia. Oggi è una giornata di luce e d’ombra. Come la vita. Un grande faggio giace riverso, schiantato dalla tempesta. Nutrirà la terra, gli insetti. Ricorderà che tutto ha una fine. E un nuovo inizio. Termina l’erta nel bosco.
Iniziano i pianori e i prati. S’attarda una macchia di neve nell’ombra. L’ingresso al Campo, ove erano i pascoli d’altura dei pastori, è un tuffo al cuore. La vasta conca si distende fra le cime dei monti. Interamente ammantata d’erba. Trapunta da una miriade di botton d’oro, come una Via Lattea in Terra. Vaghiamo nella nostra piccola immensità, nel nostro mare d’erba e fiori. Cavalli con tremanti puledri ci osservano. Ci aggiriamo fra le doline. Ogni orlo è una visione. Ogni gruppo d’alberi è un incanto. Sull’orlo dell’ultima dolina, sullo sfondo alpestre di Montea, un branco di cinghiali grufola in cerca di bulbi e rizomi. Noi cinque, “dannosi” camminatori incontriamo i “pericolosi” cinghiali. Categorie mentali introdotte da quegli esperti che si occupano di fauna e di flora da dietro una scrivania, dal sedile di un fuoristrada, dalla tastiera di un computer, dagli oculari di un binocolo, da una folla algida e distaccata di dati. Ora gli animali fuggiranno disturbati! O ci caricheranno furiosi, tranciando con le zanne le nostre arterie femorali. E invece stiamo gli uni di fronte agli altri, inermi, sereni, pacifici.
Loro continuando a grufolare, noi seduti sulle pietre. Ad osservarci estasiati. Poi la piccola erranza di rito nella boscaglia di Cozzo Iazzati per tentare un rientro ad anello. E il ritorno. Non lontano dal tempio delle peonie, un saettone occhirossi ci dona i suoi sguardi, le sue contorsioni, i suoi soffi. A, alla fine, qualcuno riesce a ritrarre un piccolo di capriolo nell’ombra segreta del bosco. Occhi negli occhi, per un tempo breve che pare eterno.