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“L’uomo ricco d’astuzie raccontami, o Musa, che a lungo errò, dopo ch’ebbe distrutto la rocca sacra di Troia”. Incipit dell’Odissea. Così, anche Ulisse è un errante. Costretto dal fato e da un dio ostile ad attardarsi lungamente nel suo ritorno. Ma, infine, per intercessione della dea amica, ritrova Itaca, la sua patria, la sua casa. Oggi siamo in tanti ad errare in quel grande dedalo perduto (e ritrovato) che è l’Aspromonte. Più fracassoni di un branco di cinghiali affamati. Più sgargianti di un paniere di frutti maturi. Non è esattamente l’errare monastico, religioso, estatico che piace a me.
“E’ il trekking bellezza!” La nuova moda dilagante, anche in queste plaghe montuose del Sud, che, svotatesi di pastori e contadini, mai avrebbero creduto di potersi riempire di cittadini e camminatori. Benché più di trent’anni fa, quando a difendere l’ambiente e a camminare in montagna eravamo in pochi, le nostre povere predizioni avevano il sapore dell’eresia. Intuivamo che il futuro delle aree interne del Sud potesse passare attraverso la ripresa delle attività tradizionali, l’accoglienza, le erranze.
Sapevamo che ci sarebbero stati molti ritorni ad Itaca. Perché, come scrive Metvejevic, per molti il Mediterraneo è un destino! In più di cinquanta sfiliamo sulla mulattiera che risale a mezza costa, in sinistra idrografica della Fiumara Gelsi Bianchi, nelle montagne di Ciminà. Ogni pietra di questo antico transito reca ancora le stille delle lacrime, del sudore e del sangue di uomini e donne che per secoli l’hanno calcata. Sto alla testa del gruppo. E’ il mio servizio annuale per il CAI. Sono teso. Sto allerta. Alla prima cascata del Nessì, la piccola conca rocciosa che la racchiude, come una conchiglia, diviene una platea zeppa di spettatori estasiati. Si risale al sentiero. Si scende alla seconda cascata. Prendiamo qualche rischio. Ma tutto va per il meglio.
Rientriamo lungo la via che serviva ai pastori di Ciminà per portare le mandrie verso i pascoli freschi dei Piani di Moleti e di Monte Antoninello. Ma di animali neanche il sentore. Salvo un solitario caprone, dalla chiara pelliccia scarmigliata, che, immobile come una divinità zoomorfa, ci scruta a lungo dalla cima di una rupe, alta contro il cielo limpido. Alle Mandrie Vecchie ancora i segni della vita di un tempo: un enorme dedalo di terrazzamenti, muraglie, stazzi, ricoveri, case. Ed il secchio per il latte, arrugginito e sparacchiato che sarà il mio elmo da cavaliere errante, alla Don Chisciotte della Mancia. Lungo la strada ritrovo il “Re dei Tre Pizzi”, un uomo che trent’anni fa conobbi sulla cima della montagna di Ciminà e in compagnia del quale facemmo tutto il tragitto del ritorno su un sentiero impossibile. Non lo avevo più visto da allora. Domenico è un abitante del luogo, e se potesse, forse fuggirebbe via da qui.
Io sono un errante nello stesso luogo, invece, e mentre trascorro le mie giornate lavorative in una piccola città caotica ed affollata penso sempre a queste solitudini. Suonano nella mia mente i versi di Kavafis: “Itaca tieni sempre nella mente. La tua sorte ti segna quell’approdo. Ma non precipitare il tuo viaggio. Meglio che duri molti anni, che vecchio tu finalmente attracchi all’isoletta, ricco di quanto guadagnasti in vita, senza attendere che ti dia ricchezze. Itaca t’ha donato il bel viaggio. Senza di lei non ti mettevi in via. Nulla ha da darti più. E se la trovi povera, Itaca non t’ha illuso. Reduce così saggio, così esperto, avrai capito che vuol dire un’Itaca”.