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Spira vento da nord est. Il Grecale, che d’inverno ghiaccia la terra. Quaggiù a queste latitudini. Una luce d’oro fuso inonda le montagne. Plataci è un borgo arbresch ancora assopito, a 900 metri di quota. Fumo dei comignoli. Un uomo spacca legna sull’uscio. Un vecchio sorridente mi parla con un accento sconosciuto. Va dalle sue galline, nell’orto che per lui è vita. Attacchiamo il costone sud di Timpone di Bardisce. Un lungo serpente colorato e silenzioso. Ansimante. La crestina rocciosa è un trampolino sospeso tra il cielo e la terra. Da cui si osserva la distesa rilucente dello Ionio. La piana che fu (ed è) il giardino fiorito di Sibari. “A venir qui anche un nume immortale doveva incantarsi guardando e godere nel cuore”, scrive Omero. Dalla cima del Timpone di Bardisce a quella dello Sparviere. Si apre un’immensità. Oltre la piana, la Sila, a sud. Groppa dopo groppa, azzurre e sfumate, le montagne, come dorsi di animali addormentati.
La Catena Costiera e l’Orsomarso a sud ovest. Le timpe del Raganello e il lungo crinale del Dolcedorme a nord ovest. Monte La Spina, Il Sirino, Monte Alpi, Monte Raparo a nord. Sotto di noi il grande imbuto del Saraceno. Con la sua foresta incantata fatta di diverse specie di aceri. E poi abeti bianchi, ontani, cerri, pioppi. Alessandria del Carretto biancheggia a mille 1000 metri di quota sul lato opposto della valle. Incontro con gli amici di Cerchiara, saliti sin qui da un altro versante. Abbracci. Sorrisi. Condivisione. La Calabria è viva. Tanto lontana dalle bugie dei media. E’ una terra che sa amare. E che, finalmente, è anche un po’ amata. Scendiamo a Lago Forano. Poi su per Tacca Peppini. Poi su Per Timpone Conocchiella. Mi piace chiamare i luoghi per nome. Ogni nome è una storia. Le conocchie sono i fusi intagliati nel legno dai pastori. Utili ma anche simboli: pegni d’amore beneauguranti, emblemi del mistero vitale della sessualità. Con figure umane e animali. Con decorazioni floreali. Con una piccola pancia piena di sassolini rumorosi per scacciare la paura e la solitudine. Che i pastori donano alle amate per filare e ricordare. Al di là c’è Valle Nera, che scende verso la lingua detritica del Sarmento. E a sinistra Timpone Rotondella. E a destra Timpone della Neviera. Dove corre la via che ad aprile vede un intero paese, Alessandria, trasportare dal bosco della Spinazzeta un grande abete che verrà scortecciato e sramato ed issato nella piazza. Come un enorme fallo, segno di rigenerazione agraria. Vittorio De Seta, nel 1959 vi girò un lungometraggio per la Rai: “I dimenticati” (per giungere al paese non vi era una strada carrabile). Scendo verso l’abisso di boschi misteriosi, picchiettati di verde, giallo, arancione, cremisi. Perché ho intravisto l’abete bianco che Michelangelo Frammartino ha ritratto nel suo film “Le quattro volte”. L’abete che assiste allo scorrere del tempo. Con un agnello a brucare ai suoi piedi. E’ un pellegrinaggio al piccolo abete isolato. Accanto c’è l’enorme tronco di un suo avo bruciato dalle saette di Zeus. Per me è come il Graal. Il simbolo della ricerca infinita. Oggi era qui che dovevo venire. Senza saperlo. Era quest’abete il richiamo. Era lui che mi cercava. E’ lui che mi ha trovato. Attraversiamo l’acereta. Il bosco senziente. Sono sovrastato dal suo silenzio. E dalle sue parole di fronde che stormiscono. Come ne “Il segreto del Bosco Vecchio” di Dino Buzzati. Dove i geni degli alberi, il piccolo Benvenuto e il buon vento Evaristo salvano il bosco dell’avidità degli uomini. Dove, per una volta, vincono i buoni. Ed è pace tra uomini e luoghi.