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Sabato successivo al primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera: stanotte si celebrerà la resurrezione di Cristo. Cosa le fasi lunari abbiano a che fare con la fissazione annuale della Pasqua cristiana non è dato sapere. Mentre sono note le connessioni lunari con i riti di rinascita primaverili. Ho avuto il permesso dalla famiglia di isolarmi e compiere un cammino in solitudine. Avverto il bisogno di (ri)stabilire un po’ d’armonia fra me e il Cosmo. Il sole è (ri)sorto a oriente, a dissipare l’ombra della fredda notte. Sotto di me il paesaggio dell’Istmo di Marcellinara, della Piana di Sant’Eufemia e del golfo. Non ho una meta precisa. So solo che attraverserò la montagna, fra due paesi dai nomi arborei: Platania e Cerrisi. Non ho fretta. Per questo procedo lentamente, verso nord. Non ho insistito con gli amici: so che certi riti (ripetizioni di miti) si compiono in solitudine e in silenzio. Quello di oggi è il mio “tempo ierofanico”, come lo chiama Mircea Eliade: la trasfigurazione del tempo, che rivela il sacro, il soprannaturale, il sovrumano, il sovrastorico. Recito la mia prima preghiera insieme al cuculo, che canta, malinconico, dalla profondità del bosco.
Ed ai piccoli fiori di pulmonaria, che fremono nel vento. Supero il crinale fra Monte Castelluzzo e Monte Condrò: osservo il paesaggio delle montagne, che si squaderna dinanzi. Avverto il richiamo dell’alta valle del Terrate. Cerco qualche indizio, che porti verso la bellezza. Sono i ciliegi fioriti ad indicarmi la via. Ho imparato che i contadini piantavano ciliegi nei luoghi vissuti e amati. Trovo il mio tesoro. Un’arcadica valletta dove è sopravvissuto un lembo dell’antico castagneto da frutto. Gli alberi sono sani e ben allineati, il sottobosco sgombro e tappezzato di prati, da cui occhieggiano anemoni e viole. Come vestigia d’un antico tempio, resti di case rurali affiorano dal terreno. Le carte riportano il toponimo “Case Dani”. All’interno i segni della vita: le sedie sfondate, le credenze aperte, gli utensili appesi. All’esterno, un ovale di pietre: forse una stalla.
Poco più in basso le sorgenti di un ruscello creano un largo stagno. Innalzo la mia seconda, silenziosa preghiera. Con le pietre e i legni confitti nelle rovine. Con gli alberi e i prati rinati nella primavera. Esploro e contemplo a lungo. Altre case, avvolte dai rovi. Parlo in silenzio. Connetto la mente con voci mute. Prego ancora. Con le spine che mi spaccano le dita. Scendo lungo la stradina. Dinanzi agli occhi, la Conca di Decollatura, valli e monti che s’inseguono all’infinito, sino all’Orsomarso e al Pollino. Giù, sul fondo del Terrate e dei suoi tanti rivi. Prego nuovamente. Con l’acqua che scorre petulante ed eterna: per lei è sempre resurrezione! Abbandono l’idea di entrare nell’abitato. Viro ad ovest e poi a sud, cercando una traiettoria per risalire e valicare all’inverso le montagne. Riposo sotto un cerro. Passa un giovane che torna dai monti sul suo piccolo trattore. Scambiamo parole fervide. Attacco la lunga erta che attraversa Santa Barbara e Piano La Raza. Il bosco intorno è un misto di vecchi castagneti da frutto abbandonati e cedui. Finché, sotto Monte Castelluzzo, si spalanca il Golgota: un’enorme distesa di ceduo di castagno appena tagliato. Potrebbe essere stato un disastro nucleare, una bomba.
Le matricine ondeggiano nel vento furioso come creature smarrite. E’ la passione arborea. Prego ancora. Questa volta con le ceppaie mutilate. Valico e mi tuffo sul versante opposto, quello da cui sono salito stamane. Ho eseguito il mio rito personale, ho vissuto il mio tempo sacro. Ogni restaurazione del Cosmo è anche rinnovamento individuale. Ogni resurrezione del tempo mitico, ogni rigenerazione dello spazio sacro è anche rinascita interiore. Mentre scendo a sud, odo il rapido martellare di un picchio che becca il suo tronco: l’ultima preghiera; l’ultima voce del silenzio.