Lago Cecita e Serra la Guardia: psiche ed anima della Sila

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco-bevilacqua-foto-blog-nuova_80da1_19973_ea258_59f1c_e96f0_cec4f_df014_db513_eb6b5_f8fb1_2c83a_da5cd_ac61d-1_c49d8_8a9fc_0ddc4_dbb45_3e055_c8aac_3902e_9b8e8_82be7_7dcc5_55d19_1497a_40b91_feee3_9e95e_59ada_e1ecc_47109.jpgSera di sabato. Il giorno della prima pioggia estiva di quest’anno, dopo il grande caldo. Mentre imbocco il viale d’ingresso alla mia casa, in campagna, noto nel cielo due occhi luminosi che mi osservano. Mi fermo e ricambio lo sguardo. Gli occhi sono piccoli dischi di luce nel grigio gravido delle nubi. Allargo il campo visivo e noto il volto di un lupo che guarda enigmatico. Il pensiero vola a ieri pomeriggio, venerdì, primo giorno di tregua dal lavoro e nello stesso tempo di fuga in montagna. Nel cielo sopra il Lago Cecita, in Sila, un’altra forma di nubi si compone ad oriente. Questa volta è un grande portale inghirlandato, sopra i boschi di pini che fanno da sfondo ai campi di grano. In entrambi i casi le nuvole mi comunicano qualcosa. Junghianamente penso che se quelle due strane forme percepite nel cielo non hanno alcun significato per il mondo oggettivo, la mia psiche, invece, ha dato loro un senso. La prima: gli occhi del lupo, mi avvertono di un pericolo, un conflitto in atto, qualcosa che devo esorcizzare. La seconda: il portale inghirlandato è la strada che il mio daimon, il mio demone buono, sta provando a indicarmi.

Quando ho la visione sul lago siamo di rientro da un’erranza su Serra la Guardia. Partiamo al mattino presto dal versante meno noto del Lago Cecita, quello ovest, compreso fra i villaggi di Moccone e Lagarò-Lupinacci. Qui la valle è amplissima, slabbrata, con una serie di fiordi: le vallette dei singoli ruscelli che scendono a impinguare il lago dalla lunga dorsale montuosa che lo cinge. Abbiamo da poco visitato un minuscolo villaggio dell’Opera Valorizzazione Sila, l’ente che si occupò di gestire la riforma fondiaria del 1950. È un villaggio fra le colline sopra un piccolo fiordo del lago. Dove ci appare all’improvviso il gigantesco castagno di S. Francesco. Dalla casetta di fronte, sbuca una vecchina vestita di nero, il colore del lutto, ma anche quello del sacro. Ci guarda con fare interrogativo, nell’ombra dei panni stesi sul filo che ondeggia nel vento sopra di lei. Dalle poche battute che scambiamo, capisco che è vissuta sempre lì, in quel piccolo Mondo isolato, dove per metà dell’anno c’è la neve, dove le case hanno poche comodità, dove la sua vita è scandita da cose semplici. Eppure nel suo sguardo avverto che non è scontenta, non è depressa e non teme la morte. Quando si vive in umiltà, quel poco che si possiede basta sempre. Ed è chiaro il corso delle cose. 

Al mattino saliamo, invece sul crinale di Serra La Guardia, dove ero stato una sola volta, molti anni fa. Lì giunti cerco vanamente le vedute che ricordavo, ma gli alberi sono cresciuti, cancellando il panorama. La cima doveva essere effettivamente un posto di guardia, un punto di controllo sull’orlo occidentale della Sila. Senza molta convinzione seguiamo ancora la strada di crinale, con la speranza di un’apertura fra le fronde. Al valico fra Serra Polverelle e Serra Tre Fontane un incendio ha spazzato via parte del rimboschimento sommitale. Ci facciamo strada a fatica fra le ginestre ed ecco, improvvisamente, un affaccio favoloso. Sotto di noi una valle profonda e larga che non riconosco. Ripidi contrafforti calano verso la lontana Valle del Crati. Tiro fuori la mia sgualcita cartina topografica. Osservo i toponimi e mi accorgo che la valle che ho sotto di me è quella del Fiume Arente, luogo sempre favoleggiato e che ora il destino mi ha fatto incontrare. È così: le persone e i luoghi ti vengono incontro quando più ne hai bisogno. Ma devi saperli riconoscere, esser pronto ad accoglierli dentro di te.  Ora, invece, vaghiamo nel dedalo di stradine che scendono verso i fiordi del lago. Questo luogo è un unicum in tutto l’Appennino. Imparagonabile anche agli altri laghi della Sila: se l’Arvo e l’Ampollino sono i laghi del divertimento, il Cecita è il lago della meditazione. Viaggiamo su lunghe e dritte sterrate, come certe strade dell’Ovest americano o delle pianure dell’Europa orientale. Sui lati alture ammantate dal velluto dei pini. In cielo rigonfi velieri si susseguono senza tregua. Qualche trattore è all’opera nei campi. Un anziano lavora, da solo, in uno sconfinato campo di patate. Estensioni enormi di terreno dorato si aprono da tutti i lati. E poi stagni e pantani, puntuti di salici, pioppi, ontani, mandrie di vacche e di pecore come grani più chiari sulle pendici inondate dal sole. E grandi balle rotonde di paglia, che sembrano installazioni di un ignoto artista contemporaneo.

Siamo costretti a fermarci su una lunga strada polverosa, fra due ali di grano non ancora mietuto. Lontano, un grosso trattore viene nella nostra direzione. Ci mettiamo da parte per farlo passare credendolo vicino. Ma dobbiamo attendere a lungo: è un’illusione ottica. Il trattore si avvicina lentamente, sollevando nubi di polvere. Giunge accanto a noi. Si ferma. Su di esso tre generazioni: un padre, poco meno che anziano, un figlio adulto ed un nipote di una decina d’anni. È quest’ultimo che, sorvegliato dal padre e dal nonno, guida il trattore in quella solitudine. Avverto un brivido lungo la schiena. Una sinapsi mette in movimento il ricordo di storie della riforma agraria in Sila. Vedo le commoventi foto di Franco Pinna in un vecchio volume sulla Sila con i testi di Ernesto De Martino. Immagino che gli avi dei tre sul trattore vissero quell’epopea e che da allora, mezzi tecnici a parte, nulla sembra essere cambiato nella trasmissione dei saperi. Il nonno insegna al figlio il lavoro nei campi, e questo, a sua volta, lo insegna al proprio figlio. E col lavoro trasmette tutto il suo senso della vita e del mondo. Che è poi quello di un’intera comunità. Torno nel presente del mio rientro a casa, la sera, con gli occhi di lupo che mi osservano, ma stanno già sparendo nel continuo mutare delle nubi. Immagine effimera come la vita. Segnale di una dimensione, quella interiore, emozionale, che non ha più diritto di esistere in questo mondo dominato dalla ragione. Seguo con lo sguardo il confondersi delle nuvole nel cielo. Vedo l’eterno divenire dell’Universo e l’infima piccolezza del mio essere. Questa è la mia diversità, inconciliabile con quella dell’Uomo, di una Umanità interamente dedita al culto di sé stessa. Solo della mia psiche, della mia anima (che ora si fondono con quelle della Sila) avverto l’intrico, insondabile anche a me stesso. E parafransando Eraclito posso dire: “Ai confini della psiche e dell’anima della Sila vai e non li trovi, anche a percorrere tutte le strade: così profondo è il Discorso che essa comporta”.  

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