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Le cliniche dei risvegli sono più avanti della politica
Scritto da Lametino7 Pubblicato in Francesco Bevilacqua© RIPRODUZIONE RISERVATA
Gli intellettuali (con patente) che pontificano sulla Calabria (e sul Sud in genere) si distinguono in tre grandi categorie: 1- quelli (in genere neo-borbonici ed indipendentisti) che “la Calabria ha dato il nome all’Italia, è stata la culla della Magna Grecia, è stata depredata dei piemontesi, vogliamo l’indipendenza, ci piacciono le tarantelle, anzi le tarantate nelle feste di piazza”; 2 - quelli (in genere giornalisti e scribacchini) che “la Calabria e i calabresi sono un inferno, prede dell’indolenza e dell’ignavia, conniventi con la mafia”; 3- quelli (in genere professorini) che “della Calabria e dei calabresi siamo titolati a parlare solo noi, perché solo noi abbiamo studiato, ricercato, capito”.
Tutte e tre queste categorie hanno in comune un pianto, un “Calabri planctus”, come direbbe l’erudito Gabriele Barrio che nel Cinquecento, nel suo monumentale “De antiquitate et situ Calabriae”, proprio con un “pianto” denunciava la rapacità dei baroni sotto gli spagnoli. E questo pianto suona indistintamente così: “i politici ci hanno traditi e svenduti, abbiamo toccato il fondo, la storia ci ha lasciati soli, abbiamo bisogno di aiuto, occorre una sterzata nel governo della cosa pubblica”. Bene, sono almeno quarant’anni che questi intellettuali scrivono sempre le stesse cose, si scontrano e polemizzano fra di loro per avere la supremazia, sciorinano le stesse lamentazioni, si appellano alla politica come ci si appellerebbe alla statua del patrono della Calabria o, peggio, al santone miracolante di turno, attendono che la politica risolva i nostri problemi. Che è poi un tipico comportamento degli intellettuali italiani nel loro complesso. Ma se si guardassero realmente un po’ in giro, la smettessero di essere autoreferenziali, fossero meno megalomani, girassero di più per i paesi e le città, lasciassero perdere le statistiche addomesticate, la smettessero di pensare che ciò di cui parlano è cosa diversa da loro e di cui essi non sono parte, si accorgerebbero che tra la società reale e la classe dirigente (loro compresi) c’è ormai un divario incolmabile. La Calabria e i calabresi che ogni giorno devono sbarcare il lunario, che si sbattono da mattina a sera, che hanno a cuore le sorti dei loro territori, dei paesaggi, dei beni culturali, della civiltà, dell’economia reale, sono già molto più avanti della politica che li rappresenta, hanno già fatto (e stanno facendo), per gran parte, tutto da soli.
E’ una rivoluzione non dichiarata, minimalista e silenziosa: piccole fabbriche che fanno leva sui prodotti del territorio o sull’innovazione tecnologica; aziende agricole che tornano a produrre le cose di un tempo; strutture di accoglienza per visitatori consapevoli; centri di rianimazione culturale delle comunità; gruppi di volontariato sociale; associazioni, intraprese, iniziative dalle finalità più varie. Tutta gente che fa più politica dei politici. Tutte persone a cui gli affanni della vita hanno prodotto ossigenazione delle cellule cerebrali e lucidità e lungimiranza e consapevolezza. Tutti uomini e donne che hanno a cuore l’avvenire proprio, quello dei loro figli, quello dei loro luoghi. Tutta gente cui non basta essere iscritta all’anagrafe del proprio comune ma vuol sentirsi abitante nel senso di Martin Heidegger: essere protetta dei luoghi, ma nel contempo proteggere i luoghi stessi. Tutte persone che senza avere una convenzione o un ruolo nel servizio sanitario regionale hanno messo su tante piccole cliniche dei risvegli per curare il coma neurovegetativo topografico che attanaglia la gran parte dei calabresi (e dei meridionali). Tutta gente che ha idee politiche ma che ha rinunciato a questuare alla politica la soluzione dei problemi. Tutte persone che sono mille miglia più avanti della politica che li rappresenta. E che gran parte degli intellettuali inutili non riesce o non vuol vedere.