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L'acqua ha preso il posto della terra, dentro il mio cuore. Costretto a non caricare il piede, ho rimosso le montagne e i boschi e le rupi e il vento. Mi immergo in piscina. Qui mi conoscono. Gentili e affettuosi con tutti. Sorpresi di vedermi in stampelle. Ripeto stancamente: algodistrofia post-traumatica dell'astragalo. Un edema interno al piede preme sull'osso. Occorre farlo assorbire per evitare la necrosi dell'osso. Lo specialista è stato categorico: "se fosse il mio piede ... ". Siamo amici. E' stato in cammino con me. Sa quanto è importante questo rito. Sa che è la mia vita. La piscina è una dimensione aliena. Difficile entrare in un artificio umano quando per trentacinque anni il mio rifugio è stata la natura. Le navate delle foreste trasmutano in grandi vetrate. Un gran tetto di legno è ora il mio cielo. Nuoto di dorso a due braccia. I polmoni sono mantici. Il pensiero allenta la sua presa. Come nelle mie corse serali. Mi concentro sui movimenti. Sul finire della mattinata. La piscina è quasi vuota. Una signora anziana con problemi all'anca. Una giovane in cinta. Un ragazzo con lo sguardo stupito. Enzo, l'istruttore, familiarizza. Mi consiglia esercizi. E' un conforto anche questo. Nuoto a rana, col capo fuori dall'acqua. Come, talvolta, la biscia nel fiumi. Perfino l'assenza di vento mi stranisce. Quando corro, quando cammino, il vento è voce e carezza e sferza. Qui l'aria è ferma. Non mi fa ostacolo. Non mi parla. Ancora dorso. Le altre solitudini in cura sono lontane, silenziose. Ancora rana. La piscina potrebbe diventare il mio rifugio per molto tempo. Enzo sorride. Mi chiede se sto bene. Alzo il pollice. La terra si è fatta acqua.