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L'abbazia di Corazzo. Il terzo millennio o sarà spirituale o non sarà
Scritto da Lametino7 Pubblicato in Francesco Bevilacqua© RIPRODUZIONE RISERVATA
Ci sono luoghi che parlano quando giunge la sera. Dev'esserci il sole meridiano. Raggi obliqui d'occidente. Luce come una deriva del cielo. Come una dolce brezza di polvere d’oro. L'Abbazia di Corazzo, prima benedettina, poi cistercense, è tra questi. Ricordo le prime avventure lassù. Quando ero ancora un liceale e i ruderi erano quasi interamente incapucciati d'edera. Come rovine in una giungla amazzonica. Me ne parlava Giacinto Montesanti, autore, nel 1963, del primo volume di "Nicastro e la Calabria in generale", cui avrebbe dovuto far seguito un secondo, e che ora è introvabile. Sino ad una decina d'anni fa, la visione dell'Abbazia compariva all'improvviso, dopo una curva, lungo la strada per Carlopoli. Enormi mura di pietra, sberciate, incastonate sul velluto dei prati della valle del Corace. Una visione da angina pectoris. Chiunque avesse un cuore vero in petto, doveva per forza avvertire una fitta. E fermarsi al centro della strada. Incredulo. Dolorante. Ebbro. C’era Salvatore Piccoli, a raccontarti la storia del luogo. Salvatore era il genio custode di Corazzo. Era la reincarnazione dell’ultimo abate. Era lo sciamano che ridava vita alle pietre e inoculava stupore nei visitatori. Somministrava Trinitrina ai colti da angina. Lì ascoltai per l’ultima volta, prima che ci lasciasse, il filosofo Mario Alcaro, che ci raccontò del “naturalismo mediterraneo” dei Telesio, dei Campanella, dei Bruno, e di una nuova visione del Sud. Oggi, la vegetazione ai margini della strada, non consente più questa visione. Ma l'abbazia è sempre lì. Accudita, finalmente, dagli uomini: i volontari di una cooperativa che studia, lavora, accoglie. Nuda pietra. Semplice e povera. Imponente e bella. Un corvo (Corax) la sorvola di tanto in tanto. Una poiana rotea in alto, nel cielo, pigolando mestamente. Il Corace gorgoglia poco distante. La semplici case di Castagna si intravedono poco lontano, su un'altura.
Il bosco è cresciuto rigoglioso sulle pendici circostanti, un tempo interamente terrazzate e coltivate. Quando i monaci vivificavano questi luoghi. Quando Gioacchino da Fiore viveva qui. Quando stava nascendo la sua profezia di un'età dello spirito che avrebbe redento il mondo. Anche se il mondo non si è redento. E forse mai si redimerà. Su Gioacchino – autore arduo – bisogna leggere quantomeno Francesco D’Elia “Gioacchino Da Fiore, un maestro della civiltà europea” ed il recentissimo libro di Massimo Iiritano “Gioacchino Da Fiore, attualità di un profeta sconfitto”. “Profeta sconfitto”, dice Iiritano. Significa che il suo annuncio di un’età dello spirito fu vano. Ma noi dobbiamo credere, invece, nella profezia di Gioacchino. Abbiamo il dovere della speranza. Per questo l’Abbazia di Corazzo è il simbolo stesso della speranza. Per tutti noi e per il mondo intero. Quei ruderi non sono afoni. Parlano ancora a chi sa ascoltarli. Ci raccontano di quando la gente aveva ancora una patria e un paese. E li amava. E vi si specchiava. Di quando da quella patria e da quel paese la gente traeva linfa vitale. Per il corpo, per la psiche, per lo spirito. Di quando da quella patria e dal quel paese andava per il mondo. Con la certezza di avere un luogo dove poter tornare. Ci narrano di quando il mondo non era un’invenzione delle multinazionali e della criminalità finanziaria e i paesi non erano perduti o dimenticati. Di quando il pensiero poteva lievitare anche nella valle più lontana del più lontano angolo d’Europa. Ecco perché Corazzo è un simbolo. Di consapevolezza. Di responsabilità. Di speranza. E ci ricorda il monito di André Malraux: o il terzo millennio sarà spirituale o non sarà.