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Osservo i miei piedi, nudi. Con tenerezza. Mi hanno sorretto per anni. Mi hanno portato in mille luoghi. Della mia terra, l’ “heimat”, la piccola grande patria dove sono nato. E dove rinasco, ogni giorno più definitivamente, come direbbe Rilke. Mentre guardo incuriosito i loro ossicini, i nervi, i tendini, dall’altro capo del corpo, il mio encefalo, invece, scotta e gorgoglia. Come un pentolone di latte su un fuoco di legna. Ho lasciato che Apollo Helios vi penetrasse per tutto il giorno. Per scaldarlo, soccorrerlo, rassicurarlo. Per risvegliare la sua felicità letargica. In questo giorno insolitamente caldo dell’inverno meridiano. E’ lontana la valle del Torrente Colognati. Anche da chi le sta vicino.
Ancora non vi giunge una strada asfaltata. Bisogna scendere ripidamente e faticosamente per una lunga sterrata. E’ la sua salvezza: nessuno può venire quaggiù con camion, ruspe, altre armi di distruzione di massa. Una minuscola, solitaria chiesina sul fondo della valle è dedicata a Sant’Onofrio, fra Cozzo Seminato a nord e Serra Pagliaspica a sud. Onofrio, anacoreta orientale del V secolo vissuto forse nel deserto egiziano, è raffigurato nudo, coperto dai soli capelli o al più da un perizoma. Il suo nome significa: “colui che è sempre felice”! Ecco perché porto con me la sua immaginetta: per un inappagabile desiderio di imitazione. Come sia giunto quaggiù il suo culto non sappiamo. Ma la Calabria appartenne all’Oriente per secoli. E i culti bizantini ed italo-greci sono ovunque. Qui, nell’immaginario collettivo, Onofrio è un eremita pastore, coperto da una pelle di capra, muscoloso, forte. E pastori erano un tempo gli abitanti di questa segreta valle della Sila Greca.
L’ultimo ha ancora uno stazzo su un poggio poco lontano. Anni fa ospitava anche un rifugio di pietre, legni e ginestre identico a quelli che vediamo in qualche disegno della vita nel Neolitico. L’ultima domenica di maggio, attorno alla chiesa si svolge un rito cosmogonico di ripetizione del mito generatore del Mondo. Che - spiega Eliade - vale a rigenerare la pienezza primordiale, serve da strumento materiale di guarigione. Non è un caso che queste feste paniche siano fatte di allegria, cibo, ebrezza, canti, balli. Ho in mente l’anello che feci l’ultima volta che venni qui. Ma bisognerà fare i conti con quel forte dio bruno che è il fiume, come direbbe Eliot. Se non fosse per un acquedotto, la valle si risalirebbe solo attraverso uno stretto sentiero. Grazie a Dio, la sterrata costruita per la captazione è malmessa. Un bosco di bagolari, il “milicùrciu” della tradizione, col cui legno i pastori realizzavano collari per gli animali e il bastone per rompere la cagliata. Pietre Pizzute è un geosito di rupi bizzarre, rossastre, gli apici rivolti al cielo. La labile pista che risale un affluente in sinistra idrografica del Colognati, come ogni primavera, è invasa dai rovi e dalle ginestre.
Ci apriamo un varco con roncole e cesoie. Sino ad udire, finalmente, la voce dell’acqua che precipita, tanto amata da Wordsworth. Lo stretto camminamento scavalca un costone fra i lecci e porta ai piedi dell’imponente salto di roccia. Cerasia, il luogo dei ciliegi. L’acqua precipita dall’alto con fragore, si frantuma sul granito, emana un freddo pulviscolo. Cerasia è luminosa, allegra, argentina! E’ un luogo celato. E’ uno spazio sacro, dove venire in pellegrinaggio, raccogliersi in silenziosa preghiera. Rivolgo un pensiero a due miei amici che da questi luoghi furono accolti: Frederic Vermorel, l’eremita; Mario Spinicci, il prete. Per il ritorno, con Sasà Pellegrino decidiamo di tenerci più alti sulla giungla di rovi. Ci ripaga un bosco di cerri monumentali, maestosi, sereni, pacifici.
Lo hanno salvato, dapprima il pascolo brado dei porci, cui esso forniva ghiande a sazietà. Ed ora la sua inaccessibilità. Quando qualcuno costruirà una strada, anche questa preziosa reliquia sparirà. E lo spazio sacro sarà profanato. Risaliamo ancora la valle. Sino a giungere al cospetto del Colognati. Oggi il dio bruno è fiero e vorticoso. Altre volte abbiamo tolto gli scarponi e guadato, per proseguire l’anello. Ma oggi non è prudente. E’ pur sempre inverno. Abbiamo perso troppo tempo alla cascata e dall’altro versante ci toccherebbe un lungo tratto ancora sino al guado inverso, sotto la chiesetta. Rientriamo. Al momento di rifocillarci, Carla Minisci tira fuori un pane meraviglioso, una bottiglietta d’olio che profuma di essenze soavi e una squisita marmellata di limoni. Apollo Helios ci guida verso la chiesina, come un padre pastore fa col suo gregge. Quello che attraversa il cielo limpido, non è lo stupido sole dell’astronomia, ma il dio caldo e radioso che governa il giorno, come scrisse De Martino.
Abbiamo perso la visione essenziale, spirituale, profonda del mondo, degli esseri, delle cose. Tutto è divenuto strumento della nostra illusione prometeica, dell’idea di poter fare e disfare: tanto la superiore intelligenza dell’uomo rimedierà ogni guasto. Sul retro della chiesa guardo la valle, le montagne, il cielo. Mi giunge il suono del sangue della Terra, che scorre laggiù. M’invade un’effimera folata di serenità. Provo un senso di comunione col Cosmo. La tenue melodia orfica dell’acqua tra i sassi aleggia sul luogo incantato per serbare il mistero della natura increata.