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Le mammelle di Stellina ed i “nuovi lussi”: una clinica dei risvegli fra Martirano Lombardo e Parco Bombarda
Scritto da Lametino16 Pubblicato in Francesco Bevilacqua© RIPRODUZIONE RISERVATA
Stellina mi osserva con un sol occhio, piegando graziosamente il capo. Mastica la sua erbetta come per distrarsi. Si avvicina, guardinga ma attratta. Forse si sta chiedendo: “chi è questo strano bipede con lo zaino in spalla? Ah sì, uno di quei tipi tutti colorati che stamattina sono partiti a piedi, si sono persi nel bosco e dopo qualche ora sono tornati. Non si sono mai fermati a brucare l’erba, che strano. Filavano dritti come avessero fretta di arrivare da qualche parte. E quando sono tornati era tutto un vociare, un sorridere soddisfatti, un salutarsi.” Stellina è la star, la mascotte di Parco Bombarda, la grande area naturalistica attrezzata, a mille metri di quota, sopra la frazione Pietre Bianche di Martirano Lombardo, gestita dalla Cooperativa l’Orso. Una zona immersa nei boschi di pini, abeti, faggi, querce, castagni, ontani del Monte Mancuso. Fresca, ombrosa, ricca di acque correnti, con tanti servizi per camminatori e gitanti, circondata da panorami immensi, che risalgono verso nord lungo la Valle del Savuto, la Sila e la Catena Costiera.
Oggi sono qui, per il Festival delle Erranze e della Filoxenia, con un gruppo di residenti di Martirano Lombardo mobilitati dalla proloco, per istituire una “clinica dei risvegli”. Come nei risvegli dal coma. Solo che questo non è un coma medico ma un “coma topografico”, come l’ho definito nel mio “Lettere meridiane” (Rubbettino, 2015), è un’assenza di legame con la propria terra, è un’“amnesia dei luoghi”. Perché nell’immaginario collettivo dei piccoli paesi dell’interno, normalmente, per gli abitanti i luoghi non hanno valore. E quindi è inutile mantenere una “relazione” stabile con loro, essere accudenti, proteggerli, rispettarli. Quante volte mi è capitato di chiedere a gente del posto, ovunque nelle zone interne della Calabria, informazioni sui luoghi. Sempre mi sono sentito rispondere: “Perché venite qui? Non c’è niente!” Il gruppo di amici di Martirano Lombardo, invece, non è fatto di gente in “coma”. Per essere venuti, di primo mattino, con previsione di caldo torrido, quegli uomini, quelle donne, quei giovani devono essere consapevoli, curiosi, innamorati. E quando accenno alla storia del territorio, mi guardano straniti. Come Stellina, anche loro si domandano chi io sia, come mai vengo da altrove a millantare una relazione intima con la loro terra. Una signora, a un certo punto, giunge persino a chiedermi: “scusi, è dall’inizio della passeggiata che ci sta parlando del nostro territorio, ma lei chi è? Come conosce tutto questo pur non essendo del paese?” “Sono un cercatore di luoghi perduti – rispondo – un medium. Faccio sedute spiritiche per rimettere in contatto, l’anima degli uomini e quella dei luoghi.” La signora comprende, sorride, annuisce. Attraversiamo la foresta riprodotta dall’uomo dopo secoli di saccheggio. Una sorta di riparazione dopo tanti torti fatti alla terra. Ecco un paesaggio che non è quello visto dai nostri genitori, dai nostri nonni. Fino agli anni ’50 del secolo scorso qui era quasi tutto sgombro, assolato, calpestato, coltivato, brucato. Poi venne la legge speciale per la Calabria e arrivarono i forestali, gli ingegneri idraulici. Misero a dimora migliaia di alberi. File di donne portavano pietre sul capo per i muretti di contenimento. Squadre di uomini picconavano, spalavano, piantumavano. A sovrintendere c’era Luciano Berti, un ufficiale del Corpo Forestale di cui Vincenzo Villella ha raccolto foto e testimonianze nel suo libro “Genti e paesi del comprensorio del Lametino” (Graficheditore, 2019) e di cui avevo fatto cenno anch’io nella mia guida al mai realizzato Parco del Reventino (Rubbettino, 2008). Intanto quegli uomini e quelle donne, i loro discendenti, sono in gran parte emigrati verso il Nord Italia ed il Centro Europa, attratti dalla civiltà industriale che qui non è mai arrivata. Ma più gli emigranti tornavano decantando le “meraviglie” del Nord, e più cresceva, in chi era rimasto, il complesso di inferiorità della nostra civiltà agricola e pastorale.
Sbuchiamo all’improvviso fuori dal bosco su una grande rupe che sovrasta la valle del Torrente Rivale, l’abitato di Nocera Terinese in lontananza ed il mar Tirreno sullo sfondo. È tutto un esclamare meravigliati, un ri-conoscere i luoghi, un tornare ad amarli ed a restituire loro valore e dignità. Stellina mi guarda più confidente, ora. Il suo padrone, il suo custode mi conduce ad un orto che risplende, verde e aulente, nel sole. Nella ricompensa per queste ore serene, oltre alla conoscenza di Stellina, oltre all’incontro con i medici e gli infermieri della nuova “clinica dei risvegli” di Martirano Lombardo e del Parco Bombarda, ci sono ora anche un bel po’ di ortaggi a chilometro zero e senza pesticidi. Penso che non è poi così grave l’esserci persi la civiltà industriale del Nord. Non dobbiamo subire, ad esempio, un ricatto fra lavoro e salute come quello dell’Ilva di Taranto. Non siamo costretti a vivere in tante piccole celle raggruppate in alveari di cemento e asfalto. Non dobbiamo trascorrere il nostro tempo inquadrati attorno ad una catena di montaggio. Abbiamo spazio, tempo e silenzio, quei “nuovi lussi” dell’occidente opulento che descrive Thierry Paquot nel suo libro “Elogio del lusso” (Castelvecchi 2007) e che milioni di persone ci invidiano, da mettere a reddito. Come ho visto fare qualche anno fa nella rinomata Val Gardena.
Da decenni la monocoltura dello sci aveva cancellato la civiltà agricola e pastorale della valle: tutti erano diventati albergatori, ristoratori, commercianti, gestori di piste da sci. Poi, un giorno, qualcuno, nella valle, si accorse che il latte della prima colazione ed i formaggi che si servivano ai turisti a tavola venivano dalla distante Centrale del Latte di Bolzano. Il tizio ebbe una folgorazione. Pensò: “ma com’è possibile che qui, dove avevamo le vacche, i pascoli, gli alpeggi e le malghe, dobbiamo bere il latte che viene dalla città?” In pochi mesi i gardenesi ripresero ad allevare vacche sui ripidi declivi della valle e costruirono una grande e moderna centrale del latte con annesso museo della pastorizia. Mi ritrovai in fila, insieme ai miei figli, per accedere al museo. Pagammo il biglietto di ingresso (5 o 10 euro, non ricordo) per ripassare pratiche, attrezzi, tradizioni di cui tante volte avevo letto sui libri di storia della Calabria e che avevo visto con i miei occhi in questo remoto angolo del Sud. Ma, quel che più mi fece impressione, è che nel prezzo era compresa la mungitura con le nostre mani del latte dalle mammelle delle vacche! E vedeste quanti ragazzini entusiasti per aver “toccato con mano” qualcosa di finalmente reale! Ecco, in Calabria, sul Monte Mancuso, a Martirano Lombardo, non mancherebbero le belle vacche podoliche della Sila o le caprette come Stellina. Solo che dovremmo smetterla di considerare le vacche, le capre e molto altro solo come il retaggio di un passato che non vale niente. E forse dovremmo cominciare anche noi a far sprizzare il latte dalle poppe di Stellina. A pagamento ovviamente!