© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Non ci può essere sviluppo economico se non c’è sviluppo culturale, diceva Benedetto Croce. Sarebbe come dire che non ci può essere sviluppo di una città senza cultura, servizi sociali adeguati, diritto (di tutti) ad abitare la città, soprattutto dopo il fallimento (a livello nazionale) delle politiche della casa che comunque vedono, ancora una volta, Lamezia come città esemplare, ovviamente in negativo. E non appare certamente fuori luogo legare parte del fallimento di Lamezia alla assoluta assenza di visioni organiche della città: oggi due componenti importanti, quali sono i quartieri di San Pietro Lametino e Savutano di Sambiase, assurgono a campionario di scelte che rischiano di far scivolare la città su un declivio sociale assai grave. Due realtà caratterizzate da un unico comune denominatore: la presenza di consistenti nuclei di edilizia economica e popolare, da anni pressoché inutilizzati per ragioni che sinteticamente possono essere riferibili ad infingardaggine, alla mancanza di un’idea di rigenerazione urbana, nonché ad una debole autorevolezza. Altrettanto grave è l’ignoranza strutturale che ha governato queste iniziative e l’errata considerazione del valore dell’edilizia economica e popolare quale risposta esclusiva al soddisfacimento del bisogno abitativo dei futuri assegnatari e non anche quale importante occasione di riqualificazione della città, fatta di esigenze variegate e di risposte diversamente necessarie, in grado di soddisfare tutti, senza distinzione di classe e di appartenenza.
Senza entrare nel merito di analisi storiche, che porterebbero lontano, basti osservare gli elementi connotanti il quartiere di San Pietro Lametino: quasi una vera e propria enclave, situata nel Comune di Lamezia ma di fatto legata alle vicende (che ovviamente non possono tenere conto di meri e artificiali confini amministrativi) più complesse della Piana di Sant’Eufemia e soprattutto del sistema culturale e idrografico che va dall’Angitola all’Amato. Un quartiere che tende sempre più ad assumere i connotati di periferia, dal punto di vista della collocazione geografica e soprattutto da quello sociale. Un caso assai emblematico in quanto si presenta come quartiere con la più consistente presenza di alloggi di proprietà pubblica in rapporto al numero complessivo degli abitanti: dal 1932 gli originari alloggi operai/contadini (poi consegnati al Consorzio di Bonifica e all’Intendenza di Finanza) hanno caratterizzato per circa trent’anni la sua composizione sociale secondo un progetto che prevedeva la creazione di una comunità veneto-romagnola-calabrese, di eccezionale valenza soprattutto perché tendeva a favorire l’elevazione culturale e produttiva di un territorio abbandonato per secoli. Poi, la realizzazione a partire dagli anni Sessanta di un consistente nucleo di edilizia popolare ha avviato un lento declino sociale, soprattutto per la mancata previsione e realizzazione di quei servizi pubblici indispensabili per elevarne la qualità e l’attrattività, nonché per mitigarne la condizione di periferia. Negli anni immediatamente successivi, la realizzazione di nuovi blocchi edilizi, destinati (secondo le intenzioni, poi irrealizzate) agli impiegati del Centro meccanizzato delle Poste, appariva come un’occasione di riqualificazione del quartiere e quale compensazione dello smantellamento del Centro di addestramento reclute: un modo questo per ripagare il quartiere della perdita dell’importante struttura militare che dal dopoguerra ne aveva caratterizzato la funzione e la qualità della vita. Il successivo passaggio della proprietà all’Aterp ha cambiato sostanzialmente prospettiva, soprattutto perché le modalità di assegnazione degli alloggi preludono ad una totale inversione, facendo assumere al quartiere una doppia periferizzazione, geografica, culturale e sociale (il numero degli alloggi popolari di San Pietro Lametino unitamente agli alloggi di proprietà demaniale risulta di gran lunga superiore alle sparute case di iniziativa privata, considerando anche quelle costituenti il nucleo residenziale ricadente nel Comune contermine).
Foriera di altrettanta problematicità è la soluzione progettuale per il nucleo edilizio Aterp di Savutano che tende a configurare la realizzazione di un ghetto verticale piuttosto che una rigenerazione sociale attraverso la qualità dell’immagine urbana complessiva e del vivere civile dell’intero quartiere, con azioni mirate e guidate dalla regia di un gruppo di lavoro interdisciplinare, preteso da un complesso progetto urbanistico e sociale (prima che edilizio). Il progetto generale, di contro, appare finalizzato alla creazione di un’isola edilizia attraverso la scelta di una soluzione di mera ragioneria cantieristica, ovvero il recupero degli alloggi di proprietà Aterp con qualche opera di urbanizzazione sparsa qua e là, intesa a balbettare un’inverosimile idea urbanistica; operazione che non è assolutamente esaustiva delle finalità proprie di un progetto di rigenerazione urbana che dovrebbe tendere, per la sua natura intrinseca, al miglioramento della vita dell’intero quartiere e non ad aumentarne la condizione di periferia con grave danno sociale di chi già vi abita. Il progetto complessivo, infatti, non tiene conto dei requisiti minimi indispensabili per governare una rigenerazione urbana e sociale, ma si limita a distribuire i fondi disponibili (ben 30mlioni di euro) con soluzioni di mera contabilità economica e in assenza di una mirata visione urbanistica di insieme. A questo proposito è paradossale, per esempio, disattendere l’applicazione di strumenti utili per realizzare, controllare e misurare i risultati attesi, soprattutto nella considerazione che i destinatari maggiormente privilegiati tenderebbero ad essere i nuclei familiari di origine rom. In altri termini è preoccupante la mancata previsione di elementi progettuali basilari quali la funzionale ricucitura con il sistema delle urbanizzazioni primarie e secondarie esistenti, il miglioramento dell’accessibilità, delle relazioni sociali e della sicurezza urbana.
Il tema è di pressante attualità, perché i cospicui finanziamenti pubblici destinati ai due nuclei edilizi di San Pietro Lametino e Savutano, sebbene sicuramente saranno utilizzati per ”recuperare” dal punto di vista meramente edilizio le abitazioni popolari attualmente inutilizzate, con molta probabilità produrranno effetti gravemente negativi dal punto di vista economico, sociale e culturale: gli elementi in gioco purtroppo fanno presagire risultati assai negativi, capaci di far immaginare un abbandono senza ritorno.
Il rischio è che prevalga – come al solito, da quarant’anni a questa parte – il principio della massima resa economica iniziale del patrimonio edilizio pubblico in disuso, trascurando in prospettiva l’impatto sociale, culturale degli interventi, l’economia urbana e territoriale. In altri termini, di questi luoghi urbani dovrebbero potersi prendere cura tutti gli abitanti di San Pietro Lametino e di Savutano e non soltanto i destinatari degli alloggi tramite le graduatorie di assegnazione. E, a questo proposito, il progetto urbanistico e sociale non può essere inteso come secondario. Come per la “Vela” di Scampia, bisognerebbe appellarsi non ai mostri edilizi che sono pronti a produrre mostri sociali ingovernabili ma alla mostruosità di chi non si prende cura di questi problemi e non si preoccupa dei “tornaconti” sociali.