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Il Partito Democratico ha discusso poco e male circa i motivi possibili della sconfitta di un anno fa che ha poi consegnato il Paese nelle mani di Salvini e Di Maio. Ora é ripartito con le primarie del 3 marzo scorso. Sta cercando di raccogliere il meglio che viene dalle ultime due elezioni regionali in Abbruzzo e Sardegna, con segnali timidi incoraggianti ma sa bene che la strada per ricostruire un rapporto saldo e lungo con l’elettorato è molto lunga ancora e poco si intuisce sulla direzione di marcia che i suoi gruppi dirigenti intedono imboccare. La sconfitta del 4 marzo 2018 discendeva da un lontano passato di mancate riforme, da un presente di povertà e ristagno, da un futuro senza prospettive di benessere immediato e da un contesto di rabbia ma anche di mobilitazione estremistica degli elettori.
Si può dire con tutta onestà che tutto questo sia nel dimenticatoio? E si poteva evitare – questo il primo problema – quella sconfitta in quelle dimensioni? Forse no ma ciò non assolve affatto i dirigenti democratici perché il problema di un anno fa - e anche di oggi tutto sommato - è quello di non avere dato agli elettori un’idea chiara di cosa sia il partito e di quali siano le sue proposte. Gli anni trascorsi in verità sono due e non uno, perché il 4 marzo 2018 si è solo pagata l’ondata referendaria dell’anno precedente senza che avvenisse un serio confronto sulle linee divergenti che c’erano e che ci sono ancora oggi, se solo si leggono le battute al vetriolo che si sono scambiati in questa per la verità timida e sonnacchiosa campagna elettorale i tre contendenti alla segreteria del partito. Tutto fa presumere, infatti, che dopo il 3 marzo lo scontro proseguirà anche se il futuro prossimo é pieno di problemi, a cominciare dalle elezioni europee.
Una linea di sinistra liberale – usiamo questi termini per semplificare – e una linea di sinistra più o meno tradizionale potranno coesistere? Quel manca al Pd – la verità è stata magnificamente sintetizzata dal filosofo Roberto Esposito – è la capacità di decidere, su di sé e dunque si tutto il resto. Il Pd appare sempre esitante, incerto, spaccato al suo interno tra chi chiede qualcosa e chi l’esatto opposto. Pensiamo, solo per ultimo, ai balbettii sulla secessione dei ricchi! Aspettare che uno tsunami travolga i gialloverdi può essere non salutare per chi è chiamato ad un compito chiaro dalla storia: stare sempre dalla parte del cambiamento vero e non delle propagande sul cambiamento. Ci riuscirà il Pd? Ci riuscirà la sinistra? Lo vedremo nelle prossime settimane.