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La Calabria di oggi, la Calabria del 1950. Un numero del Ponte che Gianfranco Manfredi e Pantaleone Sergi ebbero alcuni anni fa il merito di riproporre - un numero speciale interamente dedicato alla Calabria - riapre un vecchio cruccio: la Calabria è da lunghissimo tempo oggetto di una narrazione che la rende incomprensibile. Non si capisce più quale sia l’origine dei suoi problemi e dei suoi drammi, perché continua ad essere sempre in fondo alle classifiche dell’economia, della crescita, del vivere civile e sempre prima nelle classifiche dei primati negativi. Alla fine, in un delirio di distruzioni sistematiche e prive di spiegazioni, sembra restare in piedi una sola ipotesi: c’è una ragione antropologia al nostro essere terra irredimibile; come amo ripetere spesso da anni resta in piedi soltanto la tesi che i calabresi siano una vil razza dannata.
Questa ipotesi ha finito per moltiplicare i suoi effetti negativi nella trattazione della mafia calabrese – la ‘ndrangheta - che, raccontata prima di tutto dai calabresi attraverso il sangue, è diventata non espressione di contraddizioni storiche, politiche, sociali di una società da correggere in profondità fino a farle produrre la ricchezza necessaria ad una reale autonomia, ma metafora della calabresità (scienza inesistente che conta fitte schiere di cultori prestigiosi) e manifestazione naturale dei calabresi. Insomma, una criminalità organizzata particolarmente violenta che, scartate tutte le altre ipotesi, resta in piedi solo e soltanto come manifestazione etnica di noi calabresi. Nessuno ha il coraggio di dirlo e scriverlo con questa nettezza, ma quando della ‘ndrangheta si propongono letture che prescindono dalla concretezza delle contraddizioni che operano in Calabria, è alla motivazione etnica che bisogna necessariamente attingere. In questa lettura una parte della Calabria ha guadagnato il vantaggio di non essere insidiabile. Nessuno ci potrà mai contestare un primato che traspira dalla nostra etnicità.