© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
C’è voluto un virus per cancellare – stando alle dichiarazioni di questi ultimi giorni – lo stereotipo del calabrese “incurante delle regole e del bene comune”, al pari di un virus informatico che resetta un computer. Cancellata in un solo colpo la mancanza di senso civico. Così sembra che una vita nuova pervada la Calabria e che, a buon diritto, noi calabresi possiamo ritenere “di essere esempio positivo in quanto a rispetto delle regole”. Tutto perfetto e risolto, dunque, paradossalmente non grazie a una buona condizione culturale ma a un virus.
Sembra che siamo stati in grado di dimostrare che, indossando una mascherina e standocene reclusi dentro i muri di casa, siamo eroi per natura: solo per aver assolto a delle imposizioni, in primo luogo, a salvaguardia del singolo che ha ridato senso alla “tana”, come un vestito stretto, impenetrabile in cui la terra aderisce come una seconda pelle, e che ben rappresenta il familismo cui va riferito l’”eroico” quanto spontaneo rispetto delle regole di questi giorni. La “tana”, quindi, come spazio simbolico per eccellenza dell’individualismo allargato alla propria famiglia, al pari del sovranismo che, a scala territoriale, rappresenta la forma per antonomasia della tendenza isolazionista di un’intera collettività, sommatoria di singoli individui isolati per formazione culturale.
Ovviamente le generalizzazioni non sono quasi mai del tutto obiettive. Ma se si guarda con attenzione alla realtà, si devono pur scorgere le luci e le ombre che possano consentire di avere una visione a tuttotondo. Poi è solo una questione di proporzione e di dosi di ottimismo o pessimismo, ingredienti che funzionano come i reagenti in un laboratorio di analisi. Ma la realtà è quella che è, davanti agli occhi di tutti, intellettuali o meno che siano. Poi, ciascuno di noi con la propria coscienza può giustificare o assolvere e anche addossare la responsabilità ad altri, omettendo il coraggio dell’autocritica. In ogni caso, basterebbe dare uno sguardo al territorio per capire bene il rapporto che il calabrese, storicamente, ha con l’universo delle regole, di cui, in verità, in pochi si sono accorti. Un piccolo confronto con il paesaggio senese aiuterebbe una qualche riflessione e a trovare, come nelle tante Settimane enigmistiche di questa clausura, le molte tangibili differenze, storiche, culturali e sociali.
Al di là di queste brevi osservazioni, un dato emerge con chiarezza a proposito di regole: il sistema istituzionale ha evidenziato – oltre che la “perfezione” della Calabria in mascherina dell’ultima ora – l’asimmetria malata tra Regioni e governo centrale. Chi, per esempio, ha il potere di individuare le “zonizzazioni” sanitarie (rosse, arancioni o gialle)? In uno Stato unitario come è possibile che una Regione – Carlo Cattaneo non me ne voglia – dichiari invalicabile il proprio confine come nel Medioevo? Come è possibile che ci siano tanti sistemi elettorali e tante confusionarie leggi urbanistiche quante sono le Regioni? Tutto ciò, come minimo, è diseducativo e funziona come un incitamento, o una giustificazione, a disattendere le regole e al ritorno al brigantaggio, ammesso che ne siamo mai usciti.
La crisi sanitaria dovrebbe contribuire a resettare il sistema istituzionale, operazione necessaria se si vuole operare, non una Restaurazione o una ricostruzione, ma un nuovo modello che limiti al minimo l’operatività delle Regioni (riducendola al massimo alla rivisitazione delle funzioni dell’ex Provveditorato regionale alle opere pubbliche) o che, nella migliore delle ipotesi, le cancelli, a vantaggio di enti intermedi, quali le Province (saltando a piè pari l’ibridismo delle Aree metropolitane, Aree vaste, ecc.) con il compito di svolgere l’importante funzione di programmazione, coordinamento, realizzazione e gestione dei servizi sovracomunali.
Una volta allentata la morsa della pandemia, è necessaria la ricalibratura del ruolo degli enti locali in generale e, in particolare, su materie come la sanità e l’urbanistica, che reclamano un governo centrale nel quadro di una nuova architettura amministrativa. La sciagura dell’autonomia regionale, realizzata a spese dell’efficienza dello Stato e della sua capacità ordinamentale, impone la riforma del Titolo V per un riequilibrio istituzionale e – così è (se vi pare) – per risollevare l’erario.
La “ricchezza della povertà” che, secondo Giuseppe Berto esprime la terra degli ultimi di quaggiù, dovrebbe sollevare e spingere la Calabria a invocare più Italia, più Stato e meno mafie. Di contro, della meschinità della ricchezza, che ha spinto le Regioni “superiori”, più produttive ma sfruttatrici, a sacrificare vite umane consegnandole al virus, rimarrebbe traccia soltanto nella storia della disumanità.