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Nell’attuale situazione di crisi, emerge a gran voce la necessità della sburocratizzazione, col significato di tutto e subito, comunque.
L’esempio estremo della sburocratizzazione totale è offerto dalle mafie. Lungaggini o ritardi sono ammessi soltanto nel caso di decisioni assunte dalla “cupola” (non elemento architettonico ma organismo che agisce con modalità proprie del centralismo democratico). A dimostrazione dell’avvenuta esecuzione dell’ordine non è prevista l’esibizione di autodichiarazione cartacea (con inchiostro simpatico per non lasciare tracce), ma un’incisione su una fredda lapide di marmo con licenza grafica, a seconda dell’importanza del destinatario dei pallettoni, del profilo stilizzato di un qualsiasi angelo in volo o del più alto in grado, san Michele Arcangelo.
Molti attenti osservatori contemporanei fanno l’esempio, a proposito di sburocratizzazione ordinaria nel campo delle opere pubbliche, dell’architettura poetica (ispirata dal verso “Genova di ferro e aria” di Giorgio Caproni) del “ponte Piano” che, contraddicendo la stessa denominazione, è stato realizzato in pochissimo tempo, grazie però alla regia di un commissario. Non si considera, tra l’altro, che c’è stata la donazione del progetto nonché l’intervento diretto dello Stato (oltre il 70% del capitale sociale di Fincantieri è detenuto da Cassa depositi e prestiti).
Bisogna dire, di contro, che nella storia repubblicana, non risulta una sola opera completata in tempi rapidi, con finanziamenti (diretti o indiretti) regionali, il cui ritardo rende sempre inutile, se non dannosa, qualsiasi realizzazione: per esempio, la nuova aerostazione dell’aeroporto di Lamezia – frenata con l’alibi della mancanza del cofinanziamento – è uno fra i tanti grandi programmi rimasti sulla carta. Con l’aggravante che spesso l’avvio dei lavori di un’opera giunge quando il carattere di innovazione del progetto è già superato dall’evoluzione tecnologica o per il subentrare di nuove necessità funzionali. Questo, tra l’altro, è causa dello svuotamento del valore propulsivo di un’idea progettuale, della perdita di competitività territoriale e del mantenimento delle condizioni di arretratezza, utili soprattutto alle mafie.
Paradossalmente, nel caso del progetto della nuova aerostazione, non sarà improbabile che qualcuno ascriva la responsabilità ai poeti locali che – pur avendo davanti aerei in volo – non sono stati mai ispirati a scrivere un verso del tipo “Lamezia di ferro e aria”. Di calamità, invece, la Calabria purtroppo non si deve inventare niente, al netto dei gravi ritardi burocratici per quelle disperate aziende agricole che da tempo attendono il riconoscimento del risarcimento per i danni provocati dall’esondazioni dei torrenti, la cui manutenzione, guarda caso, è di competenza regionale. E oggi, per di più, si pretende – Costituzione alla mano – la regionalizzazione dell’emergenza, quale premessa della sburocratizzazione generalizzata.
Va anche aggiunto che il decentramento e l’invocazione della sburocratizzazione, esibita come panacea di tutti i mali, non sono mai accompagnati da una benché minima riflessione sull’attuale sistema democratico nato e cresciuto a pane e Carta costituzionale. Basterebbe ricordare che proprio la necessità del superamento del fascismo e dell’affermazione dei principi della democrazia di fatto ha condotto, passando per una parcellizzazione del sistema decisionale (la catena dei controlli preventivi), all’esasperazione della demagogia partecipativa, che vede spesso le lobbies e le mafie protagoniste principali in molte scelte normative. Del resto, nella logica dell’economia sociale circolare, la mafia è tornata ad essere co-regista del film “Italia democratica” sin dal luglio del ’43, con molti sindaci “a piacere di mafia” nominati da parte dell’Amgot, ovvero delle forze Alleate. Bisogna sburocratizzare ancora o eliminare le mafie?
La sensazione, di questi tempi di pandemia, è che dal punto di vista storico si voglia ritornare all’Italia del Seicento, quando non soltanto Milano era una sorta di capitale mafiosa spagnola in cui l’Innominato de I promessi sposi è capo della cupola e buon esempio delle decisioni dirette. Sarebbe un passo indietro gigantesco rispetto alle successive riforme di stampo austriaco di Maria Teresa che, dal suo centralismo antidemocratico, ha pensato alle scuole così come agli ospedali inventandosi la Milano di oggi, che non sembra la città più arretrata d’Italia. Certamente diversa, ben due secoli dopo, è la condizione della Napoli ottocentesca con “camorristi in guanti bianchi ed abito nero” e dove – così scrive un amministratore del tempo – “moltissime ordinanze municipali non possono attecchire, se non convengono agli interessi della camorra. Napoli comincia a ripulirsi dacché la camorra con i suoi appaltatori ne trae guadagno. Ed io, come vicesindaco, ho potuto obbligare proprietari a restaurare ed imbiancare le loro case e le ville, che sono cinte di mura, dacché, senza che io lo sapessi, la camorra locale ha diretto, di comune accordo col mio usciere, l’operazione”. E, Pasquale Villari, primo meridionalista, allarmato scriveva: “questo stato di cose fa paura, spaventa sempre più, quando si esamina più da vicino, e se ne vede tutta l’estensione”.
Ora le cose non sono granché cambiate, tutto sembra immobile, fermo a qualche secolo fa. Suonano ancora vive, attuali, come monito e insegnamento, le parole di Maria Teresa d’Austria: “qui la giustizia, qui la forca, le buone norme e la garanzia che chi ben produce sarà ben tutelato”. Ma oggi, con la confusione istituzionale e regolamentare, in nome di una democrazia malata, dov’è la chiarezza normativa e come si può pretendere la correttezza comportamentale? Come si può sburocratizzare ancora, con mafie e lobbies pervasive che partecipano ai tavoli istituzionali, e usare la forca, con giudizi o valutazioni ex post sulle irregolarità, inesistenti per la Regione e certe per lo Stato?