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Enrico Calossi ed Eugenio Pizzimenti, giovani docenti in Scienze politiche presso l’Università di Pisa, hanno pubblicato “Mutamento dei partiti e mutamento dello Stato” un saggio importante che ha arricchito la raccolta “Limiti e sfide della rappresentanza politica” a cura di Davide Gianluca Bianchi e Francesco Raniolo, la cui introduzione è stata commentata dal sottoscritto in precedenti articoli. I due studiosi hanno messo in rilievo la metamorfosi dei partiti italiani dall’Unità d’Italia ai primi decenni del Terzo Millennio. Interessante l’analisi sul ventennio fascista. Alle elezioni del 1919 furono sconfitti i Liberali; al contrario, ottennero una buona affermazione il Partito socialista e il Partito popolare.
Ma i nuovi partiti di massa non seppero gestire o capitalizzare al meglio i successi elettorali in seguito all’ulteriore estensione del suffragio universale maschile con il sistema elettorale proporzionale. Il primo fu dilaniato da contrasti interni e divisioni tra riformisti e massimalisti, polemiche politiche che nel 1921, nel Congresso socialista di Livorno, provocarono la scissione e la nascita del Partito comunista d’Italia. Ulteriori divisioni ci saranno successivamente.
Il secondo entrò nel sistema politico con conseguenze conflittuali tra centro e periferia. I partiti tradizionali non riuscirono ad affrontare le problematiche della crisi postbellica (economica e sociale). Le lotte contadine e operaie con occupazione delle fabbriche nel “biennio rosso (1919-20) allarmarono industriali, imprenditori, proprietari terrieri, finanza. Il governo non fu in grado di garantire l’ordine pubblico da scioperi e disordini provocati dalle forze di destra e di sinistra. Tutto ciò determinò il progressivo disfacimento dell’establishment liberale. In tale humus politico di crisi si inserì il fascismo. All’inizio Mussolini diede vita al movimento dei Fasci italiani di combattimento che era contro partiti e istituzioni perché corrotti. In proposito riporto un brano del saggio POPULISMO. Un carattere originale della storia d’Italia, Ed. Castelvecchi, di Nicola Tranfaglia, prof. ordinario di Storia contemporanea presso l’università di Torino: “Bastava ascoltarlo [Mussolini] … per rendersi conto (…) che aveva capito la crisi del Paese e l’occasione storica per arrivare al potere, d’accordo con le principali istituzioni della Penisola che si trovarono, infatti, al suo fianco nell’ottobre del 1922 [marcia su Roma]: agrari, industriali, il Vaticano e una piccola borghesia [contraria] al socialismo e al comunismo”.
Riguardo ai Fasci, alcuni articoli del programma di San Sepolcro, pubblicato su Il popolo d’Italia il 6 giugno del 1919, in cui vennero enunciati i principi del movimento: a) suffragio universale (…) voto ed eleggibilità delle donne [bisognerà aspettare il 1945 perché venisse riconosciuto il diritto; votarono il 2 giugno del ‘46]; b) il minimo dell’età degli elettori abbassato a 18 anni quello per i deputati a 25; c) abolizione del Senato [Guarda, guarda!]. Sul sociale: a)… la giornata legale di 8 ore di lavoro; b) I minimi di paga. Il programma faceva leva sul malcontento per avere un consenso maggiore. Tante altre promesse calibrate sui desideri della gente, promesse che non saranno mantenute quando i fascisti arriveranno al potere. In una puntata del programma della Rai Il tempo e la Storia, il prof Giovanni Sabbatucci (allievo di Renzo De Felice, tra i maggiori studiosi del fascismo), prof. ordinario di Storia contemporanea presso La Sapienza di Roma, ha sostenuto che Mussolini voleva creare “l’antipartito”, in aperta polemica con il Partito socialista da cui era stato espulso anni prima (1914); così facendo rompeva con gli schemi della politica tradizionale. In proposito il 2 marzo del 1919 apparve un comunicato, rinnovato il 9 dello stesso mese, sul Popolo d’Italia, giornale diretto da Mussolini: “… sarà creato l’antipartito. Sorgeranno cioè i Fasci di Combattimento …”. Sul populismo (quello che svoltò a destra) e l’opportunismo politico alcuni stralci di un altro articolo pubblicato il 23 marzo del 1921: “Noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente”.
Giolitti cercò di fare entrare la nuova forza politica nel sistema (o establishment che dir si voglia). In occasione delle elezioni politiche nel maggio del 1921, inserì nelle sue liste (Blocchi Nazionali) rappresentanti dei Fasci di combattimento, ma i risultati elettorali non furono favorevoli. Crisi dello Stato liberale che terminò la sua esperienza. Nella prima decade di novembre dello stesso anno furono sciolti i Fasci di Combattimento e venne fondato il Partito nazionale fascista. Gli anni seguenti (1922-24) videro “la marcia su Roma” e il breve periodo “legalitario” del nuovo partito al governo; poi si istituì il Gran Consiglio i cui membri furono scelti dal Duce. In particolare, dopo l’ammazzamento di Giacomo Matteotti, deputato socialista che aveva denunciato i brogli elettorali del 1924, fu avviata la nuova fase del regime. Al capolinea la democrazia: un solo uomo al comando, sostanzialmente autoritario lo Stato. Se nella prima fase movimentista il fascismo era antiburocratico, una volta al potere il fascismo diventò burocratico con tanti enti pubblici; rivitalizzò l’economia attraverso il settore pubblico. Tra il 1925 e il 1926 le leggi liberticide: furono soppressi partiti e sindacati; il Parlamento venne privato del suo ruolo (fare le leggi); la funzione legislativa affidata al governo.
Sulla scena politica lo Stato fascista autoritario e centralistico. I rapporti tra centro e periferia erano tenuti dai prefetti; Consigli comunali e provinciali non più liberamente eletti, ma governati dai Podestà di nomina governativa. Nel 1927 la Carta del Lavoro riguardante il corporativismo: datori di lavoro e lavoratori in unica corporazione per evitare conflitti. Nonostante l’antipartitismo nei primi anni dei Fasci di combattimento, Il PNF si organizzò come i partiti operanti in Parlamento: Consiglio nazionale, Comitato centrale, Direzione, segreteria. Unica differenza, la presenza della milizia armata in ambito territoriale che faceva parte dell’organizzazione del partito: “Sezioni locali del PNF [erano] dotati di un proprio gagliardetto di combattimento e di squadre di combattimento raggruppate in Federazioni provinciali”.
In seguito alla fascistizzazione delle Istituzioni ci fu la penetrazione del PNF nello Stato. Si sovrapposero partito e stato. La stessa cosa negli apparati pubblici. Fu, insomma, partitocratico: “La partitocrazia ha il suo atto di nascita nel fascismo. E la compenetrazione del partito con lo Stato si è rivelata fattore decisivo per spianare la strada al clientelismo e alla corruzione politica” (Ernesto Galli della Loggia Le radici storiche di una crisi il Mulino). Il fenomeno della partitocrazia continuerà dopo La Liberazione: ”E’ difficile che sia scomparso senza lasciare traccia all’indomani della Liberazione il carattere onnivoro del Partito nazionale fascista” (Guido Crainz Autibiografia di una Repubblica: le radici dell’Italia attuale Donzelli). La partitocrazia continuerà nell’Italia democratica: “I partiti si sostituiranno al partito unico” nella gestione delle istituzioni. Se ci sarà l’occasione, affronterò l’argomento nei prossimi articoli.