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Ci vuole silenzio, e buio, e un fuoco nel camino, per riprendere il filo interrotto di un racconto, stasera. Non è facile usare le parole. Nel miscuglio di voci e rumori che ci circonda, la parola non parla più, non dice, non narra. La gente non si scambia emozioni. La morte del dialogo si celebra ogni giorno, nelle strade, negli uffici, nelle scuole, nelle case. È una seconda morte di Dio. Perché con la fine della parola muore anche il sacro che vive nelle nostre relazioni. Eppure, quanti racconti (e incontri) negli ultimi giorni! Detti e non detti. Proclamati o silenti. Le fiamme che guizzano fra i ceppi sedano la mia ansia. Fatta di mille cose. Paure, tante: di non trovare la grazia d’invecchiare; di non saper accogliere il dolore che segnerà la fine di ogni cammino; di non capire che nulla puoi perdere se tutto quel che hai è puro dono. Urgenze, molte: decifrare le troppe parole udite; parlare con amici veri; tradurre il sentire in parole; rubare alla frenesia del tempo attimi di contemplazione e preghiera. Stamane è andata così: qualche ora per ricomporre un puzzle di parole udite negli ultimi giorni, per ritrovare la trama di un racconto interrotto dalla disperazione di un momento. Mi alzo nel buio della notte. Scrosci furiosi di pioggia assalgono la casa. Gli alberi intorno fremono, sotto l’incedere dell’acqua. Attendo che albeggi.
Il letto caldo è un richiamo forte. Sul display del telefono appaiono i messaggi interrogativi degli amici. Chiedono se è il caso di muoverci. Tutto dice: state a casa! Io rispondo: andiamo verso il mondo! Pochi minuti d’auto per raggiungere il valico fra le montagne di casa. A mille metri di quota. È il tempo che desideravo da tanto. La linea di cresta del Reventino penetra nubi gravide. Sul terreno è caduta la neve! Camminiamo sotto una pioggia dura e sottile. L’aria gelida penetra attraverso il naso, scende nella trachea, gonfia i polmoni, ossigena il sangue, passa nel cuore, sale nell’encefalo. La mente diviene lucida. Decodifica i discorsi uditi. Comincia l’opera di discernimento, dissezione, scarnificazione. E resta solo la poesia. Di Eliot da “La terra desolata”. Di Arminio da “Cedi il passo agli alberi”. Eccoli gli alberi sulla terra desolata.
Il bosco ceduo mostra grandi ceppi di castagni abbattuti. Migliaia e migliaia di alberi uccisi. Sui crinali, sulle pendici, nelle valli, sui costoni. Qui, fra Santa Filomena e Monte Castelluzzo. Ma ovunque, per chilometri e chilometri. Fra il Monte Reventino, La Conca di San Mazzeo, il Monte Mancuso, la Conca di Decollatura, e poi ancora, verso Monte Condrò, Monte Dondolo, Monte Portella, è un cimitero di alberi centenari ed un groviglio di giovani alberi che chiedono di compiere il progetto di vita che è in ciascuno di loro. Cessa la pioggia. Squarci di luce fra le nubi. Lontano, il biancore dei paesi incastonati fra i boschi: Decollatura, Soveria Mannelli. Sullo sfondo, la Sila innevata. Le distruzioni dell’uomo non sono riuscite a cancellare la poesia e la bellezza. Perché poesia e bellezza sono più forti di ogni distruzione. Perché poesia e bellezza salvano. I nostri passi frusciano ora sulla lettiera di foglie, nel cuore dell’antica faggeta. Scende la nebbia. Un tempio fatto di cento colonne ci sovrasta. Qui le parole non servono. La foresta è una narrazione vivente. Sono saggi gli alberi. Hanno tutto il tempo per riflettere. Sono preghiere personificate. I faggi. E poi i cerri. E poi gli ultimi grandi castagni scampati ai tagli. E poi i pioppi. E poi gli abeti. E poi i pini. Apro le braccia. Guardo il cielo. Rendo grazie. Di tutto quel che ho udito, scelgo solo la poesia. Scende fitta la prima neve sulla Taiga di quaggiù.