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“L’amicizia è sempre una dolce responsabilità, mai un’opportunità”, rivela Kahil Gibran. Non mi interessano gli amici influenti. Non definisco “caro amico” uno che conosco solo professionalmente. Non gongolo per essere nelle grazie di un potente. Ho bisogno, come un medicamento, delle dolci, umili amicizie di Gibran. Voglio sentirmi responsabile della felicità di qualcuno e mi piace che qualcuno si faccia custode della mia felicità. Chi non ha mai provato questa forma di amicizia è destinato ad un’arida solitudine spirituale. Chi considera l’amicizia un’opportunità non può essere mio amico. Per questo oggi sorrido, come quasi mai faccio durante la settimana, mentre penetro lentamente le gole dell’Argentino: ho al fianco i miei amici! Esaudisco un loro, un mio desiderio: far visita ad una persona che ci attende ormai da qualche anno. Vive nel fondo delle gole, in un luogo difficile da raggiungere, lontano dagli uomini. E’ una dea eremitica, l’ultima divinità claustrale di quello che fu il Mercurion, la Nuova Tebaide del monachesimo italo-bizantino.
Questo labirinto di montagne impervie e gole incassate, fra il Lao e l’Argentino, è avvolto da foreste inestricabili, puntellato di picchi rocciosi e di grotte, irrorato da acque fluenti. Fu rifugio per centinaia, forse migliaia di monaci che vivevano in cenobi, laure ed eremitaggi solitari. Ma fu anche una via istmica, come racconta Giovanni Russo, attraverso cui transitavano soldati, mercanti, boscaioli, carbonai, contadini, pastori. La via era sorvegliata da fortilizi appollaiati su picchi inaccessibili. E fu un polo minerario, come testimoniano il salgemma di Tavolara e lo stesso toponimo “Argentino”. Partiamo presto da Povera Mosca. Attraversiamo rapidamente tutti i ponti costruiti dall’uomo moderno sul fiume. L’Argentino canta e danza, instancabile, sotto di noi. Abbiamo fretta di giungere alla fine del regno dei bipedi: Pantagnoli, oltre cui si apre un altro regno, quello di natura. La separazione fra i due mondi è netta. Fin qui il sentiero è stato addirittura spazzato con delle ramazze! Chi può concepire azioni così stupide? I bipedi, ovviamente. Oltre quel confine governano uomini ben più intelligenti: alberi, animali, acque, pietre. Questi sì, mi piace pensarli fatti a immagine e somiglianza di Dio, non i bipedi che quotidianamente fanno il contrario di ciò che farebbe un dio. Oltre il confine ci avventuriamo fra gli immortali. Questi luoghi esistono da “sempre”. Nonostante i tentativi ripetuti degli uomini di sostituirsi agli dei. In principio era la foresta primigenia. Ebbero il privilegio di vederla com’era l’ufficiale francese Duret de Tavel agli inizi dell’Ottocento ed il geologo Emilio Cortese, alla fine dello stesso secolo. L’uomo si era adattato all’ambiente. Aveva messo a coltura quel che poteva, perfino nel cuore della valle, che ora pare una giungla selvaggia. Aveva costruito i castelli sulle rupi e tracciato sentieri lillipuziani fra i boschi. Aveva scavato nella roccia e costruito rifugi. Aveva terrazzato pendici e messo a coltura terreni.
Ma si era fermato dinanzi a Dio. Anzi, venivano proprio qui, i monaci, per trovare Dio! Attraversiamo le acque stillanti dal Golfo della Serra, con gli ululoni dal ventre giallo nelle pozze fangose. Arranchiamo sull’impervia mulattiera di Fellaro. Due poggi rocciosi regalano un quadro immaginifico: la piega tortuosa del fiume, dipinta dal verde tenero dei carpini, degli ontani, dei faggi, degli ornielli, sino al grigio dei picchi che fanno da corona e al verde scuro dei pini neri e dei pini loricati che svettano dalla roccia. E’ la visione di Gea sotto la volta azzurra di Urano! E poi la parete di calcare con le croci greche graffite chissà quanti secoli fa. E i resti della teleferica per l’esbosco del legname. Lasciamo il sentiero che prosegue per Varco della Gatta e tagliamo a destra calando ripidamente nell’imbuto dell’Argentino, sul fianco dell’affluente Fornelli. Sino al guado, dopo quattro ore di cammino. Attraversiamo il fiume e siamo sotto il Vallone Fauzofili, dove ci sono ancora i resti di un villaggio di pastori e boscaioli. Un breve traverso ed eccoci sul trespolo di roccia che fronteggia l’architettonica cascata.
E’ lei l’amica cui dovevamo far visita. Dopo quella volta in cui la raggiungemmo da Timpone Camagna scendendo per Fauzofili. “Fa baldoria” non appena ci scorge (come dice mia figlia quando pensa alle mie cascate). Saluta con voce fragorosa e cristallina. Suona con l’arpa dalle corde d’argento. Si fa bella, con la veste adamantina. Ci accoglie, nel perfetto anello di roccia che l’incastona. Eccomi amica! Sono qui per dirti che benché tu abbia scelto di celarti agli occhi dei più, in questo luogo remoto e periglioso, io non ti dimentico e ti ho sempre nel cuore. E sono sempre in relazione con te, benché quaggiù non arrivi alcun segnale satellitare. Discorrendo con te, amica, vedo cose di me stesso che prima erano opache. Parlandoti, il mio animo si rischiara. Alla fine sarà stata una giornata dura. Ma tu sei la mia dolce responsabilità. Ed io la tua.