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Lo diceva Holderlin: "solo dove c'è pericolo vi è possibilità di salvezza". E lo penso anch'io, mentre assito alla caduta di un masso a pochi metri da noi, nelle gole della Fiumara La Verde, in Aspromonte. Un luogo che ci è caro. Dove abbiamo camminato altre volte. Dove torniamo, come un rito. Dove mai abbiamo riflettuto sul più evidente dei pericoli di una gola rocciosa di questo genere: la caduta di pietre dall'alto. Ci rimproveriamo di non aver fatto indossare a tutti i caschi di sicurezza. Per quanto un masso di quel genere avrebbe ucciso anche una persona munita di casco. Sarebbe stata una fatalità, messa comunque in conto quando abbiamo deciso di venir qui. Perché, appunto, non si può trovare salvezza se non si corrono pericoli. Anche nella vita di tutti i giorni. E noi, oggi, la salvezza l'abbiamo trovata. Proprio perché quel masso è volato giù dal suo nido di secoli appeso ad una parete alta duecento metri, senza annientarci. E insieme alla salvezza abbiamo provato la gioia della condivisione. Partiamo in quindici dal ponte sulla enorme lingua detritica della fiumara, sotto l'abitato di Samo. La rampa che supera la briglia è stata quasi distrutta da una piena di quest'inverno. Intuiamo la potenza devastatrice dell'acqua infuriata.
Ma oggi il deserto di pietra all'imbocco della gole è solcato da rivi poco più larghi di ruscelli. Ed è una distesa fatta da una miriade di pietre e massi levigati. Di tanto in tanto, enormi tronchi strappati alle pendici dei monti dalla forza delle acque meteoriche. E rami calcinati, dalle forme più bizzarre, come quelli che si trovano sulle spiagge. La gola si chiude. Ed è l'orrido che attrae. Irresistibilmente. Guadi. per qualcuno è la prima volta. Esistono tante persone che non hanno mai traversato un fiume nella loro vita, che non hanno mai sentito la forza viva dell'acqua tentare di trascinarli, che non hanno mai creduto di poter passare da una riva all'altra senza un ponte. Ci sono persone che non hanno mai incontrato il contatto profondo con la forza vitale della natura. Una forza che risveglia. E che guarisce, come ricorda Konrad Lorenz. La caduta del masso. Ho paura. Gli altri sono increduli, forse inconsapevoli. Guardo timoroso il gran numero di pietre scheggiate, marroni, rosse, che spiccano sul letto di sassi grigi. Le tempeste invernali devono aver urtato con violenza le rocce. Oggi c'è il vento che acuisce il pericolo. La carcassa di un cinghiale ha già trovato chi la mangerà sino all'ultimo lembo di carne. Un merlo acquaiolo ci insegue, fuggendo avanti e indietro, incuriosito. Usciamo dal tratto a canyon. Il greto si allarga. Pendici puntellate di ontani, lecci, bagolari, oleandri, fichi d'india, tamerici. Giungiamo alla strana roccia policroma, dove lo stillicidio d'acqua, ricca di sostanze varie, produce concrezioni colorate di giallo, rosso, arancione, nero, cinabro, dall'intenso odore di zolfo. Poi il ritorno. Con la luce meridiana che muta le forme della gola, ora nel suo acme di splendore.
Il greto smangiato dalle piene produce un gradino: è come l'erosione del tempo sulla memoria. Sul gradino un ontano cresciuto nel fiume è ora una fantastica scultura di legno: simbolo di un relitto fossilizzato del nostro inconscio. Il bagno nel fiume è un rito di contatto. L'acqua fluente ci massaggia con una dolce potenza. Ed è la scoperta della forza viva della natura, che sempre sfugge alle nostre piccole menti presuntuose. Drogate dallo squallore delle città e dall'insolenza della tecnica. Alla fine siamo una lunga fila sgranata che cammina in silenzio sul grande deserto di pietra. Ognuno a fare i conti con i sentimenti risvegliati da quest'esperienza straordinaria. In due si attardano. Li scorgo lontani, lentissimi, nel contrasto tra l'ombra e la luce. Ad indugiare, come attratti da una magia. Saprò da loro che stavano ascoltando, increduli, un suono di flauti: il vento attraverso i buchi dei bastoncini di uno di loro. Generosa, la fiumara cantava.