Sant’Elia: il monte della solitudine e della preghiera

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco-bevilacqua-foto-blog-nuova_5177a_37863_9c179_3f6c2_f8d7a_24db1_bba7a_dbf5d_6eed1_80845_92e3f.jpgLa luce non si è ancora levata. Piove a dirotto sul bosco intorno casa. Stanotte, nel dormiveglia, ascoltavo il fruscio della pioggia sulle foglie. Quel suono ancestrale, udito dal mio luogo sicuro, leniva l’ansia. Come se il cielo dicesse: “fermati. Non sei obbligato a far nulla. Dedica un po’ di tempo a te stesso, rifletti, medita.”

Un amico mi ha inviato un’intervista ad Adriana Zarri, la teologa, scrittrice, eremita morta nel 2010. Diceva Adriana: “la povertà evangelica è soprattutto il distacco, non solo dal denaro, ma dal potere, dall’ambizione, da tutto. E quando mi si chiede qual è la massima evangelica che più mi interessa io dico sempre che è dove si dice «chi perde la propria vita la troverà», quella è veramente la povertà, l’essere liberi da tutto, a cominciare da noi stessi.”

Ci provo, a liberarmi da me stesso. Dalle altre cose sono già distaccato. Ma è quel “perdere la propria vita” che mi riesce difficile: troppi doveri, troppe responsabilità, troppi sensi di colpa, troppi strepiti, troppi pensieri… Si, anche con i pensieri occorre esser parchi. Non per nulla i grandi mistici orientali facevano il vuoto nella loro mente. Ma io non sono un mistico. Per quanto la vita da mistico, da monaco di clausura, da eremita mi abbia sempre affascinato.

Anche Sant’Elia era un mistico. Parlo di Sant’Elia lo Speleota, nato a Melicuccà fra l’860 e l’865 e morto a Reggio Calabria nel 960. Abitava nelle grotte sulle montagne. Si considerava più umile degli animali che strisciano in terra. Ecco, lui sì che si è liberato da sé stesso, ha perso la propria vita e l’ha trovata. Il luogo dove ci siamo avventurati ieri porta il suo nome: Monte Sant’Elia. Una gobba boscosa che divide due valli: quella omonima e quella del Nero. In Sila Piccola, fra Cicala e Sorbo S. Basile. Ci sto tornando spesso, per esplorarla. È un luogo solitario, silenzioso, meditativo. Viene qui solo un pastore. Pare che i veri abitatori di questi luoghi siano gli alberi, spesso giganteschi: castagni, roverelle, cerri. Ne incontriamo diversi. Sussurrano alle nostre orecchie dolcemente, con il loro linguaggio da eremiti. Una preghiera rivolta al cielo, solcato in lungo e in largo da nubi naviganti. Non comprendo esattamente ciò che dicono, poiché non esiste un traduttore dall’ “entese”, come direbbe Tolkien. Ma credo che esprimano gratitudine al loro dio, che poi è anche il nostro. Poi scendiamo per la prima volta nelle acque del Nero. E risaliamo il suo corso, senza meta. Richiamati da qualcosa di misterioso. Pozze di cristallo scuro si alternano a rapide e massi. In una giungla inestricabile, appena mitigata dal passaggio delle capre. Sino alla fonte di quel richiamo inespresso: un canyon di bellezza ultraterrena. Capolavoro di due artisti: acqua e roccia. Ci hanno messo millenni a scolpirlo. Lo hanno scavato e lisciato senza tregua. Un merlo acquaiolo fugge verso il fondo, come ci invitasse a seguirlo in quell’abisso orizzontale. Ma oggi non siamo attrezzati per farlo. E usciamo lateralmente dalle gole, fra gli sfasciumi di una vecchia frana. Giunti sulla stradina, ecco la sinfonia dei campanacci che invade l’aria. Il pastore attraversa come un fantasma le ripide pendici con il suo gregge di capre. Non riusciamo a vederlo, né a raggiungerlo. Fila via fra le felci e i rovi, emettendo suoni di un altro linguaggio perduto.

Saliamo così fino in cima, fra i castagni giganti. Ecco il patriarca: nove metri di circonferenza, le radici salde nella terra, i rami protesi verso il cielo. Come Adriana Zarri, lo ascoltiamo in silenzio, lasciando che ci insegni la bellezza della solitudine, del silenzio, dell’eterna preghiera.

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