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In questi giorni di resistenza contro bacilli, virus e loro vettori, e di lotta contro un invisibile, la storiografia si impone con una densa bibliografia che mette in risalto il tragico susseguirsi di epidemie nell’Europa preindustriale. In tutte le crisi sanitarie documentate emerge un minimo comune denominatore: il dramma umano come collante sociale contro il nemico. Le comunità aggredite si propongono sempre spontaneamente come cordone sanitario, per spirito di sopravvivenza, anche se – come emerge oggi – sono soltanto in pochi ad essere impegnati frontalmente. In ogni caso il dato significativo è che un comportamento collettivo, costituito dalla sommatoria di tanti atteggiamenti individuali analoghi, contribuisce a costruire un muro difensivo.
La lotta territoriale contro l’invisibile, di fatto sembra costituire un’unità in maschera che affonda le radici nella pandemia di peste del 1347-51, che costituì, in poco più di tre anni, un collante europeo, soprattutto per effetto della brutale eliminazione di un quarto della popolazione complessiva. Il fronte sanitario comune e la conseguente organizzazione territoriale, consolidati dalle successive epidemie di peste, ripresero forza nell’Ottocento sotto l’impulso del colera. Cordoni sanitari furono imposti in più circostanze anche per l’Istmo di Catanzaro, come in occasione della pesantissima peste del 1743 che ha decimato il settanta per cento della popolazione di Messina, città in stretto legame commerciale marittimo con il Lametino. Per non parlare della malaria con cui la Piana di Sant’Eufemia ha convissuto per secoli, come documentano i numerosi studi al riguardo e, in particolare, le attente analisi epidemiologiche del calabrese Antonio Catalano che, per conto delle Ferrovie dello Stato, scrive nel 1910: “lenti microscopiche ci hanno fatto scorgere attraverso i più reconditi meandri della natura un nuovo mondo invisibile, popolato di esseri infinitamente piccoli e che c’insidiano continuamente in tutti i versi e con tutti i mezzi”. Con sorprendente attualità, aggiungeva: “per il tramite zoologico delle mosche, delle zanzare e dei topi”, molte malattie infettive sono favorite nella loro espansione “dai mezzi rapidi di locomozione e dalle esigenze della vita economica del paese, che s’impongono fino a strozzare molte volte le severe regole di profilassi”. Questo veniva scritto più di un secolo fa, quando l’unità europea era soltanto preconizzata dalle nuove dotazioni infrastrutturali (le linee ferrate).
Non è peraltro molto lontana nel tempo la grave epidemia di colera che ha investito Nicastro e Sambiase nel 1854 con uno “strabocchevole numero di morienti” favoriti dalle condizioni urbane e – scriveva Antonio Cosentino, inviato dalle autorità provinciali – dalla “impurità dell’aria pell’immenso stabbio e pelle strade, e nelle case raccolto, e pella complicazione generale verminosa”. E, in particolare, individuava una delle concause della diffusione dell’epidemia colerica nelle “falde dei monti elevate alle spalle della città, che impediscono il transito alle materie gassose galleggianti nocive”. Una sorta di cortina naturale che da sempre simboleggia l’impedimento alla salubrità, al cambiamento e che sembra richiamare il muro umano costituito da un sistema di potere inquinato, che rende la città succube e senza possibilità di ricambio. Non per niente scriveva che “il colera quivi è più difficile da sradicarsi” e, come la mafiosità permanente, “si sviluppa dove trova le opportunità”. Due fenomeni diversi ma con molte analogie, soprattutto nella realtà contemporanea dove le mafie agiscono con trame sommerse (la “rete degli invisibili”, scrivono Nicola Gratteri e Antonio Nicaso) ma anche occupando fisicamente gli spazi offerti da pezzi delle istituzioni. Una stretta analogia tra emergenza sanitaria ed emergenza sociale, proprio a partire dall’Ottocento, con l’insediamento a Nicastro di un primo nucleo camorristico che ancora oggi, sotto forme ed etichette diverse, governa il territorio. La forte ingerenza della camorra sulla vita economica era legata all’intensificarsi dei rapporti commerciali con l’area napoletana a partire dalla prima metà del XIX secolo in concomitanza con l’ampliamento edilizio della città e, non è una semplice coincidenza, con l’epidemia di colera. Per combatterla, Antonio Cosentino proponeva l’uso di un elisir anticolerico derivato dall’arte della “speziaria” ovvero da decotti e infusi di erbe (dalla serpentaria ai fiori di tiglio). E sembra, nonostante il carattere sperimentale della soluzione medicamentosa, che sia riuscito “a tirare molti dall’artiglio di morte”.
L’aspetto paradossale di tutto questo è che, rispetto al nemico invisibile, la comunità riesce a mobilitarsi per attivare un fronte comune, mentre per i nemici visibili, in carne ed ossa, ben individuabili ad occhio nudo e riconosciuti come tali, ha evidentemente rinunciato a ergere muri di difesa; anzi sostiene la politica che continua ad andare a braccetto con il potere mafioso padrone del territorio, come ha dichiarato un pentito locale. Così i nemici visibili rendono la città asfittica con il favore di componenti istituzionali, che producono elisir, decotti e infusi utili a sostenere il “sistema” consolidato e dominatore, attraverso uomini-cerniera – come li definisce Antonio Nicaso – virus sociali della vita comune.