© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il 1968 segna la nascita della città-paese Lamezia ma anche il progressivo travaso del Paese dall’euforia del boom economico al terrorismo, in cui tutto il territorio nazionale è coinvolto. Una coincidenza fatale, nel passaggio da una struttura economica di tipo prevalentemente agricolo ad un ipotetico progetto proiettato verso un carattere più industriale. Negli anni immediatamente successivi, tra bombe, stragi e tentativi di golpe, era troppo alta la preoccupazione per poter affrontare, al di fuori delle stanze del potere e con la necessaria tranquillità, tematiche locali che, sebbene importanti per il destino della città, assumevano un carattere secondario. Soltanto in ambiti molto ristretti si sviluppava un “confronto” che vedeva spesso prevalere, sul piano numerico e qualitativo, l’”unanimità” nelle scelte politiche per il governo del territorio locale. In realtà le strade e le piazze erano ferocemente divise, tra destra e sinistra, su temi ideologici e nazionali, ma trovavano spesso molti punti di contatto nelle aule consiliari e sui pianerottoli condominiali delle sedi di partito. Una unità che, sebbene con apparenti diverse motivazioni, conduceva al sacco del territorio.
A fronte dell’impotenza rispetto a scelte territoriali strategiche derivanti da opzioni statali (l’area aeroportuale, l’area industriale, l’autostrada) si andava formando l’idea, sul presupposto di una città “piglia tutto”, di grandi sviluppi e opportunità, soprattutto per l’imprenditoria che aveva esercitato, grazie a provvedimenti congiunturali favorevoli (legge-ponte), le proprie potenzialità di crescita. L’euforia dei tanti cantieri aperti contribuiva a generare un ottimismo che, senza sforzi eccessivi, spingeva l’acceleratore su prassi amministrative utili ad incanalare, legittimandole, le pulsioni speculative in atto. Lo stesso Programma di fabbricazione coniugava la cantierizzazione della città con l’illusione della Lamezia di un futuro impossibile. Un modello urbanistico figlio del tempo che segna l’inizio e la fine di un vero dibattito politico costruttivo sul tema della città di qualità.
Il Programma di fabbricazione rimane uno degli ultimi lavori di Fausto Natoli (non è dato capire, però, quanto sia stato frutto delle sue scelte tecniche): una figura di primo piano dell’urbanistica italiana, che ha fatto parte del Consiglio direttivo dell’Istituto nazionale di urbanistica, allorquando il presidente era Adriano Olivetti e tra i componenti figuravano Carlo Aymonino, Italo Insolera, Luigi Piccinato, Giuseppe Samonà, Edoardo Detti, ed altri maestri come Bruno Zevi, “espulso” dalla città di Lamezia negli anni Ottanta, così come il Programma di fabbricazione basava tutta la sua struttura organizzativa sull’”espulsione” (termine utilizzato dal gruppo di progettazione dello strumento urbanistico) di parte degli abitanti dei centri di Sambiase e Nicastro “in considerazione dell’alto indice di affollamento”, portandoli al di sotto della linea ferrata. Si stenta a credere che Fausto Natoli, progettista di rango, già noto per importanti lavori nelle colonie italiane in Africa, in perfetto stile razionalistico, e per molti progetti urbanistici di pregio elaborati per città italiane in collaborazione con Alberto Morone, abbia potuto condividere scelte prive del senso della proporzione. Ci sono molte ragioni che inducono a dover considerare il Programma di fabbricazione come lavoro preparatorio (“uno schema programmatico”, come Natoli amava definire le elaborazioni iniziali) di un più approfondito Piano regolatore generale. Del resto è nota l’importanza che Natoli attribuisce agli spazi pubblici in ambito urbanistico, tanto da dichiarare “l’amore per la città” che, a sua volta, dovrebbe guidare i cittadini “nel ricercarne i difetti e la strada migliore per correggerli“; nel 1934 l’autorevolezza raggiunta gli consente persino di mettere in evidenza la criticità urbanistica della “Casa del fascio” di Giuseppe Terragni: “si può unicamente criticare – scriveva – la mancanza di uno spiazzo sufficientemente ampio per i raduni di popolo nelle grandi ricorrenze del regime”.
Di fatto la sua flebile e formale collaborazione con la città di Lamezia si esaurisce con l’elaborazione del Piano per l’edilizia economica e popolare, senza trovare lo spazio necessario per dare concreto inizio allo studio del successivo Piano regolatore generale. Sono i suoi diretti collaboratori a proseguire l’attività con il Piano di sviluppo commerciale comunale, approvato, dopo cinque anni dall’incarico, nel marzo del 1980 – alla vigilia delle elezioni dell’8 giugno dello stesso anno – con l’intento di controllare la “crescita immobiliare selvaggia”. In realtà, il Piano propone soluzioni che vanno nella direzione opposta, tanto che da una città che già registrava la presenza spontanea di strutture di vendita qualificanti come la Standa e l’Upim, si ritroverà negli anni successivi con un patrimonio commerciale – tranne poche eccezioni cresciute grazie alla qualità imprenditoriale privata – sempre più frantumato in mille pezzi e depauperato. Infatti, se da una parte lo stesso Piano registrava che Nicastro era da almeno un secolo “un polo d’attrazione commerciale primario anche per città come Catanzaro”, di fatto prefigurava un nuovo contesto urbano polverizzato, una vera e propria galassia insediativa, destinata a perdere sempre più forza, organicità e unità. Il piano, infatti, prevedeva una ridistribuzione della rete di vendita sulla base di un gigantografismo urbanistico di una immaginaria, ma sempre più lontana, attrattività della città, offrendo in realtà colpevolmente terreno fertile al libero sfogo del provincialismo edilizio locale.
L’unica figura di rilievo ad avvertire il dovere civico di segnalare che il piano potesse nascondere in sé il rischio di gravi speculazioni era Arturo Perugini, sulla via del tramonto politico parallelamente al ridimensionamento dell’idea di una grande città. Di fatto il Piano commerciale certifica l’avvio del progressivo declino urbano che si sviluppa, con significative accelerazioni, nella stagione politica degli anni Ottanta, che orienta progressivamente la città verso l’epilogo sociale e politico del 1991 – l’omicidio dei netturbini Francesco Tramonte e Pasquale Cristiano e il primo scioglimento del Consiglio comunale. Un clima che trovava conferma localmente, il 4 gennaio 1992, con l’omicidio dei coniugi Aversa in un quadro nazionale certamente non dissimile che registrava nel maggio dello stesso anno la strage di Capaci e, appena due mesi dopo, quella di via D’Amelio.