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Il combinato disposto è una locuzione giuridica usata nel burocratese, diventata tormentone durante il percorso riformatore. Continuamente ripetuta dai politici nelle aule parlamentari, nelle commissioni, davanti alla telecamere. Vuole significare (con parole semplici e chiare) che riforma costituzionale e nuova legge elettorale stanno insieme, per meglio dire coesistono l’una e l’altra, pur nella loro diversità; sono abbinate, collegate. Invece di affermare che riforma costituzionale e Italicum sono accoppiati, collegati, dizione facilmente comprensibile ai non addetti lavori, si abusa della formula burocratica combinato disposto, ermetica e astrusa per la maggioranza dei cittadini. Tale problematica era stata evidenziata all’inizio dell’iter riformatore da Massimo Arcangeli, linguista, critico letterario e prof.ordinario all’Università di Cagliari nella rubrica l’Osservatorio di Lingua Italiana; analizzando i due termini, sottolineava che, nel mettere prima l’aggettivo combinato, il termine si sarebbe potuto confondere con un sostantivo (come avviene pure oggi) e diventava (e diventa) di difficile comprensione per il cittadino comune: “Almeno disposto combinato”, o meglio, “disposizione combinata (congiunta o integrata)”, ha affermato il docente; così si capisce, anche se alcuni giuristi, a detta del linguista, non sono d’accordo.
Lo studioso, sostenitore dell’Antiburocratese, ha citato L’Antilingua di Italo Calvino, un saggio della raccolta Una pietra sopra pubblicata dalla Einaudi nel 1980. Il grande scrittore italiano metteva in evidenza in chiave parodistica la differenza di comprensione tra la deposizione, efficace ed espressiva, di un indagato per un banale furto di un fiasco di vino: “…ho trovato uno di quei fiaschi di vino (…) ne ho preso uno per bermelo a cena” e la verbalizzazione, farraginosa e astrusa, del maresciallo: “…rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli (…) e di avere effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli”. Il docente ha riportato il brano per condannare il burocratese e i suoi parenti stretti: il giuridichese, l’aziendalese, lo scolastichese… In un altro brano della stessa antologia, Note sul linguaggio politico, Calvino si occupa in maniera più specifica del politichese: “In Italia il linguaggio politico è molto difficile, astratto, astruso; ciò che l’uomo politico italiano vuole esprimere sono sempre delle sfumature (…) deve definire un certo campo di ambiguità (…) Credo che questo stile sia comune in Italia alle tendenze politiche più opposte”.
Ancora prima del rimando di Arcangeli, un altro linguista, Tullio De Mauro, già ministro della Pubblica Istruzione, citava l’autore de L’Antilingua, in occasione dei 60 Anni di Costituzione: “Italo Calvino (…) diceva: c’è un tradizionale terrore semantico, terrore per le espressioni in cui la bottiglia si chiama bottiglia, e non contenitore di plastica di liquido acqueo o contenitore vitreo di sostanza vinosa, per dire fiasco di vino, come nell’esempio che faceva Calvino”. Era l 16 giugno del 2008, al Palazzo della Minerva nella sala “Giovanni Spadolini”, sede della Biblioteca del Senato, quando venne organizzato il convegno su Il linguaggio della Costituzione; relatori il professore emerito Tullio De Mauro e il costituzionalista Michele Ainis con le testimonianze di due costituenti, protagonisti della Prima Repubblica: Giulio Andreotti ed Emilio Colombo. Moderatore dell’incontro il giornalista Sebastiano Messina che, nell’introdurre i lavori, affermò:
“[La Costituzione] è un testo di una limpidezza esemplare (…) comprensibile da ogni cittadino, anche dal più umile e dal meno colto, affinché ciascuno di loro prendesse coscienza dei propri diritti”. Prima di entrare nel merito, Tullio De Mauro fece un’analisi del livello di istruzione della popolazione italiana nell’immediato II dopoguerra. Nel 1948 il 60% degli Italiani parlava soltanto il dialetto ed era senza licenza elementare. I 556 Costituenti, nella stragrande maggioranza, avevano indubbie qualità umane: molti erano i sopravvissuti delle carceri, dell’esilio, della Resistenza al fascismo e al nazismo; quindi sentivano l’esigenza di un cambiamento democratico e di partecipazione alla politica. Da qui l’importanza di elaborare una Carta alla portata di tutti. Alla fine, come riferito da De Mauro, venne redatto un testo breve, meno di 30 cartelle e 2000 battute, dalla Commissione dei 75, presidente Meuccio Ruini. Significative le parole, ricordate da Ainis, del costituente responsabile della redazione del testo: “La Costituzione si rivolge direttamente al popolo e deve essere capita”. Il 93% delle parole fa parte del vocabolario di base della lingua italiana. Mediamente “un po’ meno di 20 parole per frase”. Quanto scritto non può essere modificato con legge ordinaria, ma dalla particolare procedura dell’art.138.
Dalla semplicità e chiarezza degli articoli della Costituzione si passò, nel corso degli anni, alla legislazione successiva, oscura e ambigua. E’ ciò che sostenne nel suo intervento Ainis, autore, tra l’altro, de La legge oscura. Come e perché non funziona. Un esempio, come tanti, l’art. 7 della legge 22 aprile 1982 scritto con numerosi rimandi. Ne virgolettiamo alcuni: “… di cui al titolo I, capo I, della legge 27 luglio 1978 (…) del primo comma dell’art.10 del DPR 29 sett. 1973, n. 597, successive modificazioni …” Il rinvio numerico continua, e fa riferimento ad altre fonti normative che, per il costituzionalista, “hanno il vantaggio di occultare il reale significato della legge”. Al contrario il testo costituzionale “è un monumento in termini di sobrietà, di essenzialità, di economia e anche di eleganza del linguaggio”, con il contributo allora, per eventuali modifiche formali, di letterati come Concetto Marchesi e Pietro Pancrazi. Un riscontro da non sottovalutare sul fatto che i nostri Costituenti ebbero molta cura per quanto riguarda la scelta delle parole. In proposito un esempio per tutti menzionato da Tullio De Mauro. All’inizio l’articolo primo era: “L’Italia è Repubblica democratica …”. Pancrazi propose di introdurre la parola una e fu accettata dai Costituenti; noi oggi leggiamo: “L’Italia è una Repubblica democratica…” In tempi non sospetti, stiamo parlando del 2008, non sono mancate, durante il convegno, le critiche sui precedenti testi: “assolutamente scongegnato” quello della Bicamerale D’Alema-Berlusconi (De Mauro), Tanti commi e lettere per l’art. 117 del 2001 (Ainis), “un profluvio di parole” (Ainis) per la riforma del 2005, poi bocciata dal referendum. Come nel 2001 e nel 2005, gli estensori della riforma costituzionale dell’oggi hanno forse ecceduto per motivi legittimi (non stiamo qui a polemizzare) nella lunghezza dei periodi, a volte farraginosi. L’art. 70, abolizione del bicameralismo paritario: da 9 parole del testo del 1948 si è arrivati a ben oltre 400; l’art. 55 riguardante la composizione del Parlamento, 13 parole nel primo testo, si superano abbondantemente i 150 vocaboli nell’attuale. Altri esempi non mancano. Insomma non si è riusciti, nel corso di tutto il periodo repubblicano post ’48, a fare tesoro, stilisticamente, del modello costituzionale originario. In tal senso riteniamo che una maggiore attenzione alla Carta del ’48 andrebbe fatta per eventuali aggiustamenti futuri o correzioni della riforma attuale, anche dopo i risultati referendari.