© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Potrebbe trovarsi nella tomba di Alarico l’inestimabile candelabro a sette braccia che Tito portò via dal Tempio di Gerusalemme e che, verosimilmente, finì nel bottino dei Goti nel sacco di Roma. Uno dei beni più cari all’umanità. Dopo la famelica depredazione, che umiliò la più grande potenza del mondo allora conosciuto privandola delle sue più lucenti ricchezze, il giovane re barbaro si diresse verso la Sicilia, ma l’ingordigia del suo popolo lo portò all’assedio di Cosenza, dove, tuttavia, trovò la morte per una febbre malarica e dove fu sepolto con tutto il suo immenso tesoro. Era l’agosto del 410. La leggenda narra che le soldatesche, non potendo trasportare il cadavere del loro condottiero sulle rive germaniche del Danubio, dov’era nato, lo tumularono nel letto del fiume Busento, dopo averne deviato il corso.
A sepoltura avvenuta le acque furono fatte scorrere di nuovo nell’alveo fluviale originario e gli schiavi che avevano ultimato i lavori furono uccisi sul posto, e questo perché nessuno mai potesse violare il segreto e profanare la tomba dell’amatissimo duce goto. Ogni leggenda abbonda di versioni diverse. Ma quella che, in questo caso, è sopravvissuta al tempo è riconducibile ad una composizione del poeta tedesco August von Platen, tradotta da Giosuè Carducci, che ne avvalora la trama prevalente, alimentando la fantasia dei cosentini, la curiosità degli studiosi, la bramosia dei ricercatori e dei cercatori che, soprattutto negli ultimi secoli, ciclicamente si sono dati da fare per tradurre la favola in storia concreta e reale. Tra questi, archeologi, ingegneri idraulici, geologi, persino radiestesisti. Intere équipe provenienti da ogni parte d’Europa hanno provato a localizzare l’ambito tumulo.
Ci provarono maghi, come il bizzarro “Janos d’Italia”, al secolo Luciano Provinciali, che, nella torrida estate del 1958, scese a Cosenza promettendo di individuare con esattezza il punto preciso della sepoltura di Alarico. Ci provò una rabdomante (o geomante) francese, Amelia Crévolin, che, dopo una serie di sopralluoghi effettuati nel settembre del 1936, impiegò l’intero mese di maggio del 1937 a “sondare” il corso fluviale nei pressi di Vadue di Carolei e che aprì qualche varco alla speranza dell’agognato rinvenimento. Si avvaleva di uno strumento prismatico in oro, con una catenella, anche questa in oro, e un anello con brillante, che poneva verticalmente, ad una certa altezza, sul terreno, fino ad avvertire un fremito, laddove ci fossero stati oggetti aurei nel sottosuolo.
La Crévolin era accreditata di clamorosi ritrovamenti in Francia. La sua sicurezza la portò ad una trattativa per l’acquisto del terreno sottoposto ai suoi saggi. Era convinta che ai sette metri sarebbe affiorata la tomba. L’impresa Marola si offrì di compiere gli scavi a sue spese. Ai tre metri e mezzo, furono trovate ossa umane schiacciate sotto alcuni macigni, ossa risalenti ad epoca assai remota e appartenenti a quattro diversi individui. Si trattava degli schiavi uccisi dai Goti? E chi può dirlo? Fatto è che le attività successive della rabdomante non diedero esiti ulteriori. La Crévolin morì con le sue persuasioni inappagate e dopo avere acceso aspettative tuttora non sopite. Cosenza, però, continua a covarle perché il mito di Alarico giunga, finalmente, a monetizzarne la storia.