Nel silenzio della cima, parla la dea

Scritto da  Pubblicato in Francesco Bevilacqua

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francesco_bevilacqua_.jpgCamminiamo nel silenzio più assoluto. Lungo quella che Giorgio Braschi chiamò “La cresta dell’infinito”. Partiti, nella tenue luce del giorno, da Colle S. Martino, passati per Colle della Scala, saliti, tra bassi, contorti, ginepri, fin sul crinale. Tanta neve. Ancora. Indossate le ciaspole. Il tempo è di quelli che non dà tregua. Sprazzi di sole accecante, improvvise folate di nebbia, vento forte, freddo: il contrasto tra luce ed ombra che piaceva ad Alexander Von Humboldt e che, secondo lui, è il fenomeno che più anima un paesaggio. Faticare, sudare, essere invasi da raffiche gelide. Da 1000 metri circa di quota, salendo lentamente, fiottando vapore dalle bocche socchiuse. Verso la cima orientale della Manfriana, altitudine 1981. In queste occasioni si soffre col fisico (per alcuni una sofferenza incomprensibile ed inutile) per essere felici nello spirito (esperienza che la gran parte della gente non proverà mai). Le gambe producono acido lattico (nella neve si fatica il doppio a camminare). Il corpo è interamente occupato a gestire sudore e gelo.

Il cuore nel petto pompa con tutta la sua forza, unico organo di cui avverti la voce. I polmoni sono mantici. Il viso è esposto: porta d’ingresso del vento che ti invade, come per mutarti il sangue. Perché sei un altro in quel momento. Sei esattamente quello che dovresti essere: un essere senziente. Non un automa lobotomizzato dagli artifici della vita cittadina. Sei lì, in un mondo che per quasi tutti gli altri esiste solo in televisione. In quella che chiunque crederebbe una fiction. A faticare ad ogni passo. Senza parole. Dimentico delle ansie di ogni giorno. Con il cervello colmo di ossigeno che ti guida. E che ti parla per divinazioni. Ogni albero strinato dal gelo, ogni scorcio grandioso che si apre davanti, ogni roccia addobbata di migliaia di ghiaccioli a bandiera, che sfuggono alla logica della gravità, sono momenti di pura, estatica preghiera. Quando siamo in vetta, dopo cinque ore di cammino e quasi mille metri di dislivello, sudati ed agghiacciati, avvolti da turbini di nebbia, conveniamo che nessuna parola potrà mai bastare per descrivere questo indicibile privilegio che ci è concesso.

Un mondo fatto di terre, di paesi, di masserie, di uomini, di montagne, di valli, di gole vive laggiù. Per gran parte ignaro. Questa lama bianca dove ora ci troviamo non è più il teatro delle loro vite, come intuì Eugenio Turri. Credono che quel paesaggio sia il contesto in cui vivono. Non sanno che quel paesaggio è parte delle loro comunità perdute. Non sanno che per secoli, i loro avi hanno adattato ogni loro gesto a quel paesaggio, ne hanno introiettato il senso, l’hanno sedimentato nelle loro anime. Ho sempre aborrito la retorica della vetta, tipica di un certo alpinismo. Ma oggi avverto che salire in cima ha qualcosa di profondamente spirituale, è una metafora dell’allontanarsi dal mondo degli artifici e delle menzogne. E’ un ritrovare la dimensione stessa dell’essere nel mondo. Non è un caso che ogni religione abbia la sua montagna sacra.

Su una cima un ateo non può rimanere tale. La neve e il ghiaccio ricoprono le pietre squadrate del più alto tempio greco dal mediterraneo. Su questa cima esposta al freddo ed alla furia degli elementi, qualche folle pensò di innalzare un edifico per celebrare un Dio. O forse una Dea. Attoniti e stupiti. Grati e paghi, Consci che nulla, nessuna parola potrebbe rendere l’idea di ciò che stiamo provando. Solo, mi balenano nella mente i versi di Omero, dal libro V dell’Odissea, il quale, dopo aver impareggiabilmente descritto la bellezza dell’Isola di Ogigia, allorché Zeus, per intercessione di Atena, invia Ermes a liberare Ulisse dall’incantamento di Calipso, conclude (versi 73/74): “A venir qui anche un nume immortale doveva incantarsi guardando e godere nel cuore”.

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