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In sette. Tutti ugualmente disposti a liquefarci per la fatica, a non chiedere mai quando arriveremo, a non infastidirci se ci smarriremo e saremo costretti a tornare sui nostri passi. Tutti con la stessa linfa errante nelle gambe, identici sentimenti nel cuore. Tutti pronti a stupirci, entusiasmarci, rendere grazie. Nella mia mente, il puzzle del luogo e del percorso si compone il giorno prima del cammino. E perfino al mattino stesso. In base a variabili spesso inconsce (nel senso junghiano del termine). Stavolta tocca al Monte Caramolo, nell'Orsomarso orientale. Non intendo raggiungerlo per una via "normale". Voglio concatenare, invece, due percorsi impervi dai quali manco da almeno vent'anni. I miei cammini sono anche ritorni e condivisioni. Se avvengono dopo tanto tempo, si trasformano in esperienze di pura rinascita. Come se quei luoghi perduti rivenissero al mondo nella sala parto della mia anima. Beninteso, i luoghi "perduti" (quelli che mi affanno a cercare come un rabdomante) esistono anche al di là delle nostre vite. La natura è immensamente più grande di noi. Ma perché continuino ad esistere quantomeno nell'inconscio collettivo (per ritornare a Jung) - visto che dall'immaginario collettivo dei locali sono invece scomparsi almeno dal secondo dopoguerra in avanti), e non restino uno spazio vuoto sulla carta topografica, devono continuare ad aver un "senso", anche rinnovato, per l'uomo.
E' l'uomo che ha il compito di visitarli, ricordarli, amarli, chiamarli per nome, cantarli, raccontarli. Mi sovvengono Eugenio Turri de "Il paesaggio e il silenzio" e Bruce Chatwin de "Le vie dei canti". L'anello comporta il lasciare un'auto alla località San Marco di Saracena, nella valle del Garga (dove concluderemo l'itinerario) e con l'altra raggiungere, risalendo la valle per altri cinque chilometri, l'imbocco del Vallone del Ceraso, da dove partiamo. Percepisco quanto gli abbandoni (da parte dei vecchi frequentatori, contadini, pastori, carbonai, mandrie, boscaioli) mutino i luoghi. Molti punti di riferimento sono scomparsi. La vegetazione si è selvaggiamente riappropriata delle opere dell'uomo sedimentate da secoli. Ma le tracce di queste opere sono ancora lì, celate. A noi tocca trovarle, riconoscerle, risvegliarle e seguirle. Il Vallone del Ceraso è un ripido imbuto che si allarga come un bosco incantato e si restringe, a tratti, come un covo di streghe. Regna sovrana la faggeta, con una cinquantina di giganti dalle forme più inconsuete. La spessa lettiera di foglie è disseminata di segni: crani ed ossa di selvatici, aculei di istrici, funghi, alberi e rami schiantati dalle tempeste o dal tempo, massi muscosi. Gli amici sono attoniti dinanzi a tanta bellezza. Stiamo percorrendo uno dei più bei sentieri del parco ma nessuno lo mantiene, lo segna, lo segue. Dopo tre ore di cammino, contemplazione e fatica giungiamo al Piano di Caramolo. Nubi nere ci accerchiano. I prossimi passi sono incerti. Il puzzle non è ancora completo. Potremmo avere difficoltà di orientamento. Considero possibili prolungamenti imprevisti.
Tralascio, perciò, di salire in cima e taglio vero La Picarella, una vetta minore ma intorno alla quale ricordo rupi e pini loricati. Ritroviamo tutto. Come se uno spirito ci avesse guidato sin lì. Sostiamo a lungo per godere della monumentale, selvaggia bellezza di questo luogo. Poi giù, sotto le rupi, per cercare il fondo del Vallone de Il Portone. Ripido, pietroso. Ci attende un'altra faggeta fiabesca. Gli amici sono al colmo dello stupore e della gioia. Ma raccomando loro di trattenere le scariche di serotonina, adrenalina e dopamina, perché le meraviglie non sono finite. Trent'anni fa mi chiesi perché sulle carte, quel luogo si chiamava "Il Portone". Ne studiai la morfologia. Mi accorsi del sentiero segnato sul fondo. Capii che doveva esserci qualcosa di straordinario che aveva scatenato la fantasia dei locali. Trovai la via in risalita e rimasi basito. Il sentiero attraversa ripido e zigzagante un vero e proprio tratto a canyon con rupi alte centinaia di metri. Un passaggio magico, segreto. Un portone appunto. Traversiamo come in trance. Gli occhi non sanno dove guardare per primo. Proseguiamo a lungo nel bosco, con vecchi ruderi ormai ridotti a macerie. Sino a giungere esattamente nel punto in cui abbiamo lasciato l'auto. Ora, mentre scrivo, canto e racconto, quei luoghi perduti, i faggi giganti del Ceraso, le Rupi e i pini loricati de La Picarella, i patriarchi e il passaggio de Il Portone, vivono in me. E tali resteranno, come reliquie preziose nel fondo del cuore, per il tempo che mi sarà concesso su questa Terra.