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Cosa resterà dei sogni, racchiusi in contenitori di carne, smarriti in una notte di ottobre al largo di Lampedusa? Se lo è chiesto un bravo intellettuale calabrese, Antonio Calabrò, alcuni giorni dopo la tragedia, sulle pagine di Zoomsud. Nulla, ha risposto. Il mare inghiottirà corpi e anime stritolati dalla storia, e con loro le nostre coscienze cieche e sorde. Il mare nero come senza colore senza pietà e senza neanche il riflesso di una pallida umanità alla deriva, impegnata a costruire steccati e gabbie, a separare, dividere, ghettizzare. I poveri da un lato, i rimanenti dall’altro. Non si passa. Non siamo uguali. “Io vorrei che questa notte la voce possente di un Dio misericordioso facesse risuonare nel cielo con fragore di tuono i nomi delle vittime di questa tragedia immane. Nel silenzio delle nostre case ovattate, scossi dal richiamo alla nostra mortalità, potremo finalmente comprendere il brivido feroce degli ultimi momenti, e scoprire cosa vuol dire coltivare sogni e raccogliere terrore. Siamo tutti colpevoli, e arriverà il giorno che la pagheremo. Senza sconti, come ci meritiamo”. Parole forti ma vere, che interrogano anche noi calabresi, l’altra sponda del dolore di questi anni. In uno degli ultimi sbarchi sulle nostre coste è stato raccontato che i migranti, 44 in tutto, sono stati sette giorni senza toccare cibo. Tra loro anche una donna con un bambino in tenera età, soccorsi sulla spiaggia di Cala Janculla nei pressi di Palmi. L'uomo che ha raccontato il dramma vissuto dai migranti era ovviamente in precarie condizioni di salute è stato ricoverato in ospedale.
I profughi giunti a Palmi erano di nazionalità siriana, afghana e iraniana e tutti giovani, tra i 15 e 24 anni, imbarcati su una nave mercantile nel porto di Izmir, in Turchia, e poi caricati su tre scialuppe e fatti sbarcare nella spiaggetta vicino Palmi. L'equipaggio della nave mercantile che li ha caricati, e che sembra abbia adesso anche cambiato bandiera, era composto anche da marinai russi, uno dei quali avrebbe persino picchiato alcuni migranti. Raccontiamo queste cose perché si sappia che Lampedusa parla a tutto il mondo e che noi calabresi siamo in prima fila ed è bene non scordarlo mai. Ha scritto queste meravigliose frasi lo scrittore aspromontano Gioacchino Criaco in “I figli del vento”: i primi ad arrivare sulla spiaggia iniziarono a urlare. Indicavano un punto nell’acqua. Lo vedemmo tutti, poi capimmo. Un corpo, scuro e gonfio. Negli anni a seguire ne trovammo sempre più spesso di cadaveri. Le prime volte venivano a recuperarli. Quando le facce divennero via via più scocciate, smettemmo di andare in caserma ad avvisare. Passavamo una tovaglia sotto i corpi e li portavamo a riva. Scavavamo una profonda buca in un angolo e li seppellivamo. Ci mettevamo sopra un masso per segnare il posto. Col tempo i massi diventarono tanti e l’angolo divenne “l’angolo nero”, come la pelle dei disperati che lo popolavano, quei neri che arrivavano nella nostra terra mentre noi ce ne andavamo via, quegli uomini che venivano a realizzare i loro sogni là dove noi avevamo già da tempo smesso di sognare.