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Calabria, andare oltre i silenzi e le comode denunce In evidenza
Scritto da Lametino 3 Pubblicato in Filippo Veltri© RIPRODUZIONE RISERVATA
La deriva calabrese é questo: uno sforzo di pochi di andare oltre il coro e un silenzio assordante di tanti altri. Fuochi che ardono alti quando vengono accesi, ma poi si spengono altrettanto bruscamente; l’assenza di una rete che tenga assieme le forze migliori; la facile fuga nella denuncia a buon mercato; una incapacità a leggere nel profondo quel che si muove dentro una società malata ma complessa. Se ne può finalmente discutere? Si può avviare un dibattito, una riflessione su questi temi, con sobrietà e nettezza? Ne possono discutere gli intellettuali, i cattedratici, i professori, chi professore non è? Le Università? Gli imprenditori? Si può ragionare su come magari accorciare le distanza tra quei troppo ‘alti’ e troppo ‘localistici’’?
“Per anni – ha scritto Gioacchino Criaco, l’autore del tanto giustamente celebrato Anime Nere – la Calabria ha praticato il luogocomunismo nei confronti di posti come Africo, Platì o San Luca. Africoto o Sanlucoto era, dai calabresi, associato a qualcosa di negativo. Ora c’è un’africotizzazione della Calabria intera, per mali reali e anche per alibi strumentali. E la Calabria è diventata l’utile idiota di una nazione in declino, corrosa dai problemi. E l’Italia fuori dai suoi confini è diventata la Calabria d’Europa. E non è per razzismo che ‘calabrese’ sia diventato un termine negativo. C’è solo tanta superficialità intorno alla Calabria, pregiudizi e banalità figli di un autorazzismo tutto calabrese, prodotto dall’essere orfani di un passato che è stato grande ma che è passato da qualche millennio”.
Troppi hanno campato e continuano a campare su quel ‘luogocomunismo’ di cui parla Criaco. Giornalisti, scrittori, intellettuali – tutti presunti tali, per carità – e poi politici, magistrati, sindacalisti, imprenditori, etc etc. Tanti, troppi hanno fatto e continuano a fare una immeritata carriera su quella africotizzazione, narrando una Calabria che ovviamente c’è, c’era e in ogni caso costruendo – insieme a tanti, troppi che da fuori ci hanno ovviamente sguazzato – su di noi un bel vestito che ora facciamo una tremenda fatica a scucirci, sempre per chi è intenzionato a farlo.
E siamo ancora in pochi a volerlo scucire questo vestito, perché in troppi e in tanti ci campano (e pure bene) su quella immagine della Calabria. Ma ormai il velo è squarciato e sarà difficile continuare a narrare in maniera superficiale la Calabria. Quel di cui abbiamo bisogno non è dunque, il silenzio. Anzi. Abbiamo bisogno di più denunce vere e di parole vere, di un giornalismo serio e puntuale, di un racconto onesto in tutte le sue sfaccettature. Quello che non ci serve e di cui, anzi, non ne possiamo più sono le ovvietà e i luoghi comuni. Aiutano i mafiosi, la ‘ndrangheta, il malaffare e la malapolitica a nascondersi. A confondere le acque, a mischiare le carte. Ciò di cui c’è bisogno è finalmente una narrazione normale della Calabria.