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Taumaturgia del Pollino. Il cerchio di Italus
Scritto da Lametino7 Pubblicato in Francesco Bevilacqua© RIPRODUZIONE RISERVATA
L’hanno chiamato Italus, dal nome dell’eroe eponimo della mitica Italía, l’antica Calabria. Osservando il gigantesco pino loricato di cui volevano misurare l’età, i botanici dell’Università della Tuscia, hanno pensato al re degli Enotri, il quale, secondo Aristotele, avrebbe inventato i sissizi, banchetti comuni per celebrare la convivialità e l’amicizia, ed avrebbe trasformato la sua gente da pastori nomadi in agricoltori stanziali. Potrebbe starci! Perché Italo ed i suoi cospecifici si sono “stanziati” – unici fra gli altri alberi - sulle zone più elevate del Pollino con una comunità di titani che suggono dal suolo il cibo comune loro necessario e paiono intenti in una inintelligibile conversazione fra loro. Il prof. Gianluca Piovesan ed i suoi collaboratori hanno estratto dal tronco un pezzetto di legno e l’hanno analizzato con la tecnica del Carbonio-14, un isotopo radioattivo del Carbonio già usato dagli archeologi. Hanno così stabilito l’età: 1230 anni nel 2017! Non ho avuto la fregola di conoscere Italus: sono amico con tanti altri suoi fratelli ugualmente belli. Ma questa domenica, visto che ho promesso ad alcuni amici di portarli su Serra delle Ciavole, vorrei riparare all’omissione. Il mio accesso preferito alla zona centrale del Pollino è sempre l’alta valle del Raganello, un diadema di paesaggi, natura e cultura, incastonato sul lato orientale del massiccio. Nello specifico: il vecchio sentiero di Casino Toscano, che serviva ai pastori per salire alla Grande Porta del Pollino. E da lì saliamo, in una afosa ed umida giornata di giugno. Mentre l’accesso più noto della zona (Colle Impiso) la domenica pare un centro commerciale, da qui non sale mai nessuno. Eppure l’arrivo dall’alto sui Piani di Pollino è mille volte più bello. Tagliamo a sinistra, solcando pigramente le alte praterie dei piani, indecisi su quale direzione prendere. Infine, girovagando estasiati fra cavalli al pascolo, fioriture policrome e patriarchi arborei, giungiamo sulla vetta delle Ciavole per una traiettoria completamente nuova.
Le vedute tutt’intorno sono ostacolate da una foschia densa che copre l’orizzonte come un sudario. Eppure, tutto è ugualmente meraviglioso. E benché sia venuto quassù decine di volte, ogni volta scopro una nuova regione … della mia anima, come direbbe Kahil Gibran. Osservo la lunga e scoscesa cresta sud che si sviluppa verso il Piano di Acquafredda. Stiamo per tornare indietro, quando un gruppo di amici del CAI ci invoglia a deviare proprio da quel lato, allungando di molto il tragitto. Attraversiamo in silenzio un cimitero di pachidermi: una sequela di tronchi calcinati di pini che qui resistono con i rami protesi verso il cielo come membra di oranti. Mi associo alla loro silenziosa preghiera verso il sacro, l’inconoscibile, il mistero che avvolge la vita, le nostre vite. Non dirò del pellegrinaggio ad Italus, per rispettare la riservatezza (un po’ contraddittoria per la verità, visto che sono stati proprio loro a divulgare la notizia) che i funzionari dell’ufficio conservazione del parco hanno imposto sulla sua esatta ubicazione, forse per paura di atti vandalici. Dico solo che, a dispetto del mio pregiudizio, Italus mi ha colpito per il suo essere vecchio, decrepito, quasi morto eppure ancora vivo, e per il suo volto-paesaggio, come quello di un anziano capo Siux tristemente silenzioso nella sua riserva indiana. Al Piano di Acquafredda neppure il tempo di salutare i faggi serpente, come li chiamò Giorgio Braschi, che siamo costretti, per tornare da dove siamo venuti, a risalire al Passo delle Ciavole, scendere a Piano Toscano, risalire alla Grande Porta e da qui scendere nuovamente a Casino Toscano. Alla fine, la prima uscita lontano dalle mie montagne di casa, dopo la prigionia invernale, si è trasformata in una vera e propria erranza, come piace a me: 20 km, 1000 metri di dislivello in salita, quasi 9 ore di cammino. Ora percorro all’inverso, con il mio vecchio fuoristrada, la sterrata che dalla Timpa della Falconara scende verso Colle Marcione.
Sfilano ai lati le isolatissime fattorie degli ultimi pastori del Pollino, le praterie di ginestra comune fiorita e profumata, i pascoli, i coltivi, i boschi, le rupi delle grandi timpe, illuminate dai bagliori rosati del crepuscolo. Nello stereo, come sempre qui, “The great gig in the sky” dei Pink Floyd, il famoso pezzo con il magistrale assolo della voce di Clare Torry, il cui significato pare stia in una visione positiva della morte, entità da tutti, invece, aborrita. Secondo i mitici autori del brano solo chi ha vissuto nella pienezza del proprio daimon, della propria missione sulla Terra, non teme la morte. In fondo, era giusto che incontrassi Italus a 64 anni, quando non si è più accecati dal vitalismo e si è indotti ad immaginare la propria fine. Dice una strana voce di sottofondo all’inizio del brano (che potrebbe essere quella di Italus che pensa al suo “cerchio” che si chiude dopo 1230 anni): “And I am not frightened of dying E non ho paura di morire / Any time will do, I don’t mind In qualunque momento, non mi dispiace / Why should I be frightened of dying? Perché dovrei aver paura di morire? / There’s no reason for it, you’ve gotta go sometime Non c’è ragione per farlo, devi andare prima o poi / I never said I was frightened of dying Non ho mai detto di aver paura di morire”.