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Rupi di Lanzicello. Il campanile sul diadema d’argento
Scritto da Lametino7 Pubblicato in Francesco Bevilacqua© RIPRODUZIONE RISERVATA
Polvere gialla di licheni sulla grigia roccia calcarea. Uscita da ferite stillanti umori. Altra polvere, questa volta rossa. Verdi muschi su protuberanze e fenditure. Felci, arbusti, foglie, erba. Un arazzo nel bosco di lecci, aceri, carpini! Abbiamo faticato tre ore fin quassù, per sperderci nella giungla che ha invaso il Vallone Ficara, anticamente abitato dagli uomini, con rifugi, animali, coltivi. Una conca obliqua, non lontana dall’abitato di Orsomarso. Sotto di essa, il rivo omonimo che scende a rimpinguare l’Argentino. Sopra, le torreggianti rupi di Lanzicello. Le scorgo, fra gli squarci delle fronde. Una, al centro del diadema d’argento che contorna la valle, è alta, conica, pinnacoluta, con un campanile sulla cima puntato verso il cielo. Richiamo irresistibile! L’osservo con gli occhi del contadino di Ernesto De Martino ne “Il campanile di Marcellinara”: il contadino, raccolto sull’auto dell’antropologo perché lo accompagnasse, sparito dal suo orizzonte visivo il campanile del suo paese, Marcellinara, sprofondò in una sorta di angoscia territoriale. Solo quando De Martino tornò indietro e il campanile riapparve alla vista, “il vecchio cuore dell’uomo andò pacificandosi come per la riconquista di una patria perduta”.
È illusorio pensare che gli umili pastori della valle salissero talvolta lassù? Temo che sia vano cercare un passaggio. C’è solo una tenue speranza, dettata dall’esperienza di altri luoghi simili: che, anticamente, quella gente avesse necessità di valicare la corona di monti, per scendere poi, dall’altro versante, nelle valli contigue. Scambi commerciali, contatti, relazioni, fiere, feste. E dall’altro versante c’è la valle dell’Abatemarco, con il paese di Verbicaro. Decido di proseguire, dunque. Mi rincuora scoprire vecchie piazzole di carbonai con la terra ancora annerita, fin quasi sotto le rupi. Sulla carta esse non hanno nome, salvo una, la più ad ovest, Cozzo del Lepre. Ma chi ci viveva sotto, un nome doveva averglielo dato per forza: troppo evidenti, troppo evocatrici quelle guglie. Come ricorda Eugenio Turri, le rupi ben evidenti sono iconemi, segni distintivi dei luoghi, punti di riferimento per gli abitanti e per i viandanti. Seguo una traccia mentale più che materiale. Divengo pastore anch’io, un povero pastore che deve trovare erba fresca per la sua mandria su questi terreni difficili, proiettati solo verso l’alto o verso il basso. Proseguiamo contro ogni logica moderna. A tratti risorge dal nulla un sentiero che zig-zaga, supera canaloni, impegna costoni. Poi si perde, ritorna pura traccia di una psiche collettiva ormai smarrita. Divengo rabdomante. Cercatore di passi cancellati dall’oblio del tempo. Vedo le cose con la mente di chi è venuto qui prima di me. Diventiamo fantasmi.
E dopo l’ascesa nell’ombra, gli spiriti escono finalmente alla luce. Un crinalino di pietrisco calcareo da cui spuntano pini loricati e pini neri, felicemente insieme. E dietro, il regno delle rupi, sullo sfondo dei monti e delle valli. Separate da orridi profondi. Procediamo cautamente sulla crestina sfasciata, sino a sbucare nel cielo, sopra l’infinito. La nostra piccola valle è laggiù, con il serpente di acqua e pietre addormentato nel mezzo, i tetti rossi degli abituri sui fianchi, il velluto del bosco ovunque, le imprendibili conifere artigliate alle rupi. E il campanile di pietra sulla cima della rupe innominata poco sotto di noi, irraggiungibile, irreale. Vorrei essere una creatura con le ali. Per camminare ancora, nell’aria. Non un’aquila, no! Mi basterebbe essere corvo. Uno di quelli che mentre udivano i nostri passi nel bosco, facevano festa nel cielo, dicendo: “rieccoli finalmente, i pastori perduti. Credevamo di non rivederli mai più qui, sopra il loro campanile di pietra incastonato nel diadema d’argento.