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Revenant (Redivivo): un film per la Pasqua al posto del solito Ben Hur
Scritto da Lametino7 Pubblicato in Francesco Bevilacqua© RIPRODUZIONE RISERVATA
La sera della domenica di Pasqua ho incrociato casualmente in TV il film di Alejandro González Iñárritu "Revenant" (redivivo) (USA 2015), con la formidabile interpretazione di Leonardo Di Caprio, che gli valse l'oscar per il miglior attore. Non vado a cinema né vedo, di norma, la TV, né ho Sky e roba simile. La sera sono quasi sempre troppo stanco per godere anche solo di un bel film. Appartengo al tipo psicologico delle “allodole”, che designa coloro che cascano dal sonno molto presto, la sera, e si destano inesorabilmente, al mattino, quando è ancora buio (il tipo contrario è quello del “gufi”). Ma in quell’occasione, avendomi alcuni amici tanto parlato di “Revenant” ed approfittando della festa dell’indomani, ho forzato la mia natura e sono rimasto sino alla fine a vedere, con grande interesse, il film. Che, per altro, ha rappresentato – non soltanto per il titolo assonante con la resurrezione – un’ottima alternativa ai soliti tormentoni pasquali di “Ben Hur” e “The passion”. Basato su una storia vera, ma con delle modifiche sostanziali che lo rendono ancor più avvincente e pregnante del romanzo di Michael Punke da cui è tratto, ispirato anche al precedente “Uomo bianco va’ con il tuo dio” di Richard C. Sarafian (USA 1971), il film è ambientato nel Grande Ovest americano nel 1823, all’epoca della corsa sfrenata alla colonizzazione di qui luoghi selvaggi, al saccheggio inconsulto delle loro risorse ed alla distruzione dei popoli indigeni. Racconta di un trapper, Hugh Glass, che fa da guida ad un gruppo di cacciatori di pelli. Hugh ha perduto la moglie indiana uccisa dai soldati durante un attacco al villaggio. Viaggia con il figlio, al quale è legatissimo. Durante il viaggio, avventuroso e pieno di pericoli, Hugh viene ridotto in fin di vita da un orso. I compagni ed il figlio se lo trascinano dietro, ma l'inverno gelido e il lungo cammino da percorrere costringono il gruppo a dividersi. Uno degli uomini incaricati di attendere soccorsi accanto al ferito abbandona Hugh al suo destino, dopo aver ucciso il figlio dinanzi agli occhi del protagonista.
La seconda parte del film è l'odissea di Hugh, pur ferito, senza armi e viveri, si desta da una morte certa e riesce a sopravvivere come un primitivo, superando ostacoli inenarrabili ed a ritornare, infine, dopo diverse settimane, al forte, dove sono i suoi compagni, compreso colui che l'aveva tradito. Durante il tragitto Hugh salva una donna indiana che era stata catturata e violentata da un altro gruppo di cacciatori bianchi inseguiti dal padre della ragazza e dai suoi guerrieri. Giunto - da redivivo, appunto - al forte, l’istinto lo induce a vendicarsi del traditore che si dà alla fuga. Ma, dopo averlo trovato e mentre è titubante se ucciderlo, intravede, come un'apparizione, il gruppo di indiani di rientro dopo aver recuperato la ragazza. Hugh abbandona così l'altro uomo al suo destino nelle mani degli indiani, rinunciando alla sua vendetta. Ho riassunto così, sinteticamente, la trama del film, girato in paesaggi selvaggi di grandiosa e cupa bellezza, quasi sempre d'inverno e con la neve, con pochi, estatici momenti di sole e luce. Ma perché il film mi ha tanto colpito? E perché non poteva esserci occasione più appropriata per vederlo? Carl Gustav Jung la chiamerebbe una "coincidenza acausale significativa" (così Jung descrive queste esperienze fondamentali per la psiche individuale nel saggio "La sincronicità"). Innanzitutto siamo di fronte ad una lezione magistrale di cinematografia: non c'è nulla che non sia di altissima qualità, dall'interpretazione di Di Caprio alla fotografia, dalla regia alla sceneggiatura, dalla colonna sonora alle ambientazioni ed ai costumi. Inoltre il film è la rievocazione reale e nello stesso tempo immaginifica dell'epopea dell'ultima natura selvaggia (quella della scoperta del Grande Ovest americano) che non si ripeterà mai più nella storia dell'umanità. E non ha nulla a che fare con certi tentativi, a mio giudizio, ingenui e consumistici, di riprodurre quell'epopea: penso, in particolare, alla storia contenuta nel libro di Jon Krakauer "Into the wild" da cui l'omonimo film di Sean Penn, di cui, ben inteso, non critico il valore letterario e cinematografico ma solo l'illusione - tutta contemporanea - del giovane protagonista di poter rivivere il mito thoreauiano (mi riferisco ad Henry David Thoreau) della "wilderness" ossia natura selvaggia. Viceversa, mi pare che il regista abbia avuto ben presente la lezione di "Dersu Uzala" di Akira Kurosawa (URSS-Giappone 1075), altro film girato nella wilderness (questa volta la Taiga siberiana) ed anch'esso tratto da una storia vera, nel quale il grande regista nipponico aveva riprodotto un altro spaccato epocale e veritiero del rapporto fra l'uomo e la natura selvaggia. Ma quello che ho trovato straordinario del film (in questo, molto differente dal romanzo) è l'atmosfera onirica, mistica che pervade la storia di Hugh. L'uomo, dal momento della morte della moglie, è confortato solo dalla presenza accanto a sé del figlio e vive nel perenne ricordo della vita già vissuta, in una prospettiva di espiazione e rigenerazione che neppure lui sa ben capire sino all’epilogo altamente simbolico: la rinuncia alla vendetta. La moglie defunta rappresenta la memoria e nello stesso tempo la guida spirituale, come accade in quasi tutte le civiltà arcaiche: è il collegamento fra il passato ed il futuro. L'avventura si trasforma così in una ricerca interiore della dimensione del sacro vissuta proprio attraverso l'esperienza della wilderness: la spiritualità che si rivela attraverso la natura, la materia nella sua forma più sublime. Un tema a me molto caro che ho trattato - e qui la prima coincidenza - nel mio ultimo libro per la Rubbettino "Turbare una stella". Il film coincide poi con il periodo pasquale: il "revenant" (redivivo) è un uomo che cerca, in fondo, la sua rinascita. Poi c'è il rapporto con il proprio corpo, le ferite, l'invecchiamento, la resilienza, la condivisione dell'io (psiche e soma insieme) con il Tutto: terza coincidenza, visto che è un pensiero che sto profondamente vivendo in questo tempo della mia vita, e che ha subito una forte accelerazione. Infine c'è la visione mistica della vita, nel film rappresentata dal ripetuto passaggio dalla realtà fenomenica a quella soprannaturale: quasi che l'acme della vita, rappresentato paradossalmente dalla morte, sia esattamente la credenza - mistica appunto - che la nostra esistenza individuale ha come fine la fusione con quel Tutto, infinitamente più grande e importante di noi, dal quale proveniamo.