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Nel labirinto. Teseo e i pastori di monte Cocuzzo
Scritto da Lametino7 Pubblicato in Francesco Bevilacqua© RIPRODUZIONE RISERVATA
Passaggi incerti, segreti, fra guglie, torri, archi, fessure, pertugi, grotte, inghiottitoi, portali. Onde di nebbia s’infrangono sulla città di pietra. Risalgono, da ovest, lungo i fianchi della montagna. Sommergono i meandri, lambiscono le rupi, esplorano gli anfratti. Fuggono rapide ad est. In terra, crepacci s’ammantano di muschi, felci, licheni. Dalla neve esala aria gelida, che ghiaccia il sudore sui corpi. Qui lavorò Dedalo, l’architetto, con i suoi fratelli, Vento, Sole, Pioggia. Modellò la roccia per Minosse, re di Cnosso. Vi abitò il Minotauro, metà uomo e metà toro. Teseo lo uccise, guidato da Arianna. Ma lo spirito aleggia ancora fra le rupi.
Vaghiamo fra le vie ingannevoli del labirinto. Il luogo si chiama “Scaglioni”: sul fianco sud di Monte Cocuzzo, apice della Catena Costiera, sospeso tra cielo e mare. Lato segreto della montagna. Versante che digrada verso un paese dal nome evocatore: Longobardi. Proveniamo dal bosco sopra il paese. E dai pianori che furono granai. Fra boschi di ontani e pini. Muri a secco di roccia calcarea reggono pendii erbosi. E un gregge di capre protetto da burberi cani da pastore. Oltre a me ed a Saverio, Francesco, che ci ha raggiunto da San Giorgio Morgeto: lavorava come montatore video a Treviso, quando decise di lasciare tutto e compiere un avventuroso viaggio a piedi in Sud America, sino alla punta della Patagonia. Lo colse lì lo scoppio della pandemia. Con una rocambolesca ritirata attraverso il mondo devastato riuscì a rientrare nel suo Aspromonte. Dove lavora nuovamente come montatore, ma da remoto, accudisce gli orti di famiglia, impara a conoscere la sua terra. E poi Samuele, di Longobardi, anni in giro per l’Europa a fare lavori vari. Anche per lui il ritorno a casa. E la creazione di un’azienda agricola bio su un terrazzo che s’affaccia sul lucore del Tirreno. Qui sta costruendo una vita con Valeria, giornalista, anch’ella da remoto. E poi Xavier, belga, agronomo di appena 23 anni, in viaggio in Italia per imparare la lingua e lavorare nella fattoria di Samuele, dopo un’esperienza di cooperazione in Ruanda. Ha scelto la Calabria, dice, per la diversità dei suoi paesaggi. E infine Antonio, geometra, anche lui di Longobardi, sportivo, fratture multiple alla colonna vertebrale per un incidente. Ha cominciato a conoscere davvero la Calabria, quando i medici gli hanno consigliato di camminare a piedi. Tre nativi originari; altri tre, che le loro patrie le hanno scelte tardi, non ancora, forse, definitivamente, come dice Rilke.
Giugiamo ad una lieve depressione del terreno, che un tempo dovette ospitare una di quelle capanne di pastori che abbiamo incontrato anche in Sila Greca e in Aspromonte, e sono sopravvissute uguali dal Neolitico. Con la base circolare di pietre, un’intelaiatura conica di pertiche sopra, la copertura di ginestre come tetto: calde, traspiranti, impermeabili. Racconto agli altri della “Farchinora”, il rito orgiastico fra uomini, donne e capre, descritto da Giovanni de Giacomo in un libro del 1914 – sottotitolo “Eros e magia in Calabria”. L’autore scrive di aver assistito, proprio sul Monte Cocuzzo, in uno di questi rifugi – più grande degli altri, quasi una capanna comunitaria – all’orgia, propiziata da libagioni di vino. È un rito panico quello decritto da de Giacomo: un’irruzione controllata dell’irrazionale nel razionale, come accadeva a Roma e nell’antica Grecia. Per impedire che l’irrazionale troppo represso scoppiasse violentemente, si dedicavano tempi precisi alle pratiche orgiastiche, come le feste dionisiache o i baccanali.
Poi saliamo più su, sino al labirinto degli Scaglioni. Dove evoco il mito. Minotauro è il figlio della congiunzione – proprio come nella Farchinora – fra un essere umano ed un animale: Pasife, moglie di Minosse, re di Cnosso, e un toro bianco. Il re, per nascondere il frutto della perversione, imprigiona il Minotauro nel labirinto. Minosse impone alla rivale Atene di consegnargli, ogni anno, sette giovinetti e sette fanciulle da dare in pasto al Minotauro. Teseo, eroe di Atene, s’imbarca per Creta, con l’intento di uccidere il Minotauro e mettere fine al tragico tributo. Arianna, figlia di Minosse, aiuta Teseo fornendogli il gomitolo di lana che gli eviterà di perdersi nel labirinto. Teseo riesce nell’impresa e prende il mare per tornare ad Atene: aveva promesso ad Egeo, re di Atene, in caso di vittoria, di issare delle vele bianche. Ma, dopo aver abbandonato Arianna sull’isola di Nasso, subisce l’ira di Poseidone, che scatena una tempesta. Le vele bianche si squarciano e Teseo è costretto ad issare le vele nere. Così, Egeo, preso dalla disperazione si uccide.
Il labirinto simboleggia l’eterna ricerca, la complessità del mondo, quella dell’animo umano. La perversione di Pasife è il frutto di una vendetta degli dei per un torto subito, ma forse, anche l'illusione dei sensi. Il Minotauro è l’inevitabile congiunzione fra mondo della ragione (la parte umana) e mondo dell’istinto (la parte taurina), bene e male, temperanza e follia panica. Teseo è l’eroe buono, capace di compiere la sua missione ma anche di tradire. Arianna è la donna generosa e fedele. Per Jung: il Minotauro è l’archetipo dell’immagine materna divorante e il labirinto è il percorso attraverso cui l’uomo si emancipa da questa immagine, cercando la consapevolezza del sé.
Proseguiamo sino alla cima. Il mondo intorno è buio, ma noi sorridiamo ugualmente. Il terreno, un misto di ghiaccio diamantino e di sterco di capre: anche qui gli opposti che si congiungono. Osservo stupito il dispiegarsi di un crinale dove scopro di non essere mai stato e che dovrò percorrere: Cozzo Serralta, Pietra del Corvo, Cozzo Burrara. Prometto ad Antonio ed a Samuele di tornare, per continuare la nostra ricerca. Che ha un orizzonte geografico ma anche una dimensione interiore. Per una strana coincidenza, l’erranza di oggi ha raccolto attorno a luoghi carichi di simboli, cinque persone in cammino nel labirinto. Per tutti noi valgono ancora le parole di Eliot: “non cesseremo mai d’esplorare. E alla fine di tutto il nostro vagare, arriveremo al punto di partenza e conosceremo il luogo per la prima volta”.