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La fallimentare politica militare degli USA e dell’Europa in Medio Oriente
Scritto da Lametino7 Pubblicato in Pino Gullà© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il ritiro dell’esercito americano dall’Afghanistan, dopo vent’anni di guerra e di occupazione, sarebbe, per alcuni esperti geopolitici, l’ennesimo insuccesso degli Stati Uniti e dei suoi alleati in quell’area. Ringalluzziscono l’Isis e al-Qaeda con i loro attentati sanguinari. Il disastro tragico di Kabul ne richiamerebbe tanti altri del passato in quella stessa regione. Nel saggio L’Islam, non l’occidente deciderà il futuro del Medio Oriente, dell’analista Carlos, pubblicato nel febbraio del 2017 su Limes, vengono evidenziati in alcuni passaggi gli errori degli Usa e dell’Europa nella regione mediorientale. Sbagli che si ripetono. L’autore include anche l’Afghanistan nel Grande Medio Oriente. L’analisi socio-politica parte da lontano con cenni alla storia antica: “La regione è stata la culla della civiltà”; ricorda il colonialismo di ieri e di oggi (in particolare quello economico): “E’ stata, altresì, e rimane culla e tomba di ambizioni coloniali, imperiali ed egemoniche”; ritorna al presente etnico-religioso caratterizzato da un fondamentalismo aggressivo: “la regione (…) ci ha regalato movimenti ideologico-religiosi, da ultimo lo Stato islamico che si prefiggono di annichilirla”. Due periodi soltanto, con ulteriore sintesi del sottoscritto, sono bastati a Carlos per dare il quadro completo della regione. In nota a pagina 152 una datazione importante, 24 maggio del 1916; l’anno in cui si stabilirono gli accordi di Sykes-Picot; dai nomi dei due diplomatici, il primo britannico (Mark Sykes), il secondo francese (Francois Picot), che portarono a termine l’azione diplomatica. Gli accordi stipulati riguardavano in un primo momento il Regno Unito e la Francia; successivamente vennero allargati alla Russia. Importanti perché nacque un nuovo assetto del Medio Oriente. La nuova cartina geopolitica diventò colorata: La colorazione in blu concerneva la zona d’influenza francese; quella in rosso la britannica; l’altra in verde era appannaggio della Russia. I diversi colori non tenevano conto delle divisioni religiose e dei leader territoriali.
Secondo alcuni studiosi, gli accordi di Sykes-Tricot del 1916 sarebbero la causa originaria della cronica questione mediorientale. Oggi i fatti tragici di Kabul avrebbero ulteriormente indebolito il prestigio americano ed europeo con ancora possibili contraccolpi nel mondo occidentale: terrorismo, xenofobia e razzismo. Carlos fa la sua analisi scandita per decenni a partire dagli anni ’70 del secolo scorso: “L’inizio è stato con il terrorismo palestinese e gli shock petroliferi. (…) Nei primi anni Ottanta [la regione] ci ha regalato il conflitto in Libano, che determinò la prima missione multinazionale significativa occidentale, sancendone l’umiliante fallimento; (…) ha continuato all’inizio degli anni ’90 con la prima guerra del Golfo; (…) il brusco risveglio dell’11 settembre 2001 e successivo intervento in Iraq. Il ricorso più recente è stato quello delle primavere arabe del 2011. Non osiamo immaginare cosa ci potrebbe riservare il 2021”. Carlos scriveva nel 2017, ai tempi di Trump. Ormai non c’è bisogno di immaginare; la cronaca degli avvenimenti drammatici ci comunica che gli Usa hanno abbandonato Kabul insieme alla coalizione della Nato. Quanto mai attuali le riflessioni di quattro anni fa dell’esperto di geopolitica: “Dopo aver seminato vento per decenni (…) ora stiamo raccogliendo tempesta”. E ancora: “Negli ultimi 25 anni gli Stati Uniti hanno evidenziato una crescente difficoltà a influenzare in modo significativo (…) gli eventi mondiali. Nessun teatro di crisi meglio di quello mediorientale ha offerto la misura di questa incapacità”.
Obama, appena insediato, ereditò, tra gli altri focolai, il conflitto in Afghanistan, definito dal primo presidente afroamericano “guerra di necessità” a causa degli attentati terroristici di Al-Qaeda nel settembre del 2001 alle Twin Towers e contro il Pentagono (sede del Dipartimento della Difesa degli Stai Uniti), una seria minaccia alla sicurezza nazionale degli Usa. Ben presto, però si convinse della inutilità della guerra esportata e della fine dell’egemonia americana, soprattutto in Medio Oriente. Cercò di evitare, per quanto possibile, di ricorrere all’uso della forza, prendendola in considerazione soltanto come estrema ratio; provò a cambiare strategia, seppur con molte incertezze, attirandosi qualche critica nell’opinione pubblica americana. Se costretto, voleva azioni militari diverse da quelli tradizionali: attacchi mirati; ricordo al riguardo l’uccisione di bin-Laden. Uno slogan di Obama, Nation-building start at home (la costruzione della nazione inizia a casa), esprime con eleganza l’identico significato del grossolano American first (prima l’America) trumpiano. Sulla stessa linea, sostanzialmente, Biden che difende la sua scelta. Ricordo a memoria le sue dichiarazioni televisive dopo che l’ultimo militare americano, il generale Chris Donahue, immortalato in foto dai giornali, è salito sull’aereo all’aeroporto di Kabul: “La guerra infinita è finita; l’America si deve difendere non dalle minacce del 2001 [attentati alle Torri Gemelle] ma da quelle del 2021; il mondo è cambiato; L’America non è più il poliziotto del mondo; deve pensare al proprio interesse nazionale; bisogna affrontare la competizione con Cina e Russia”.
Biden si è ritrovato tra le mani l’accordo di Doha, in Qatar, del febbraio 2020 (ai tempi di Trump) che prevede la fine del conflitto armato con i Talebani e il ritiro dell’esercito degli Usa entro il 31 agosto 2021. Così è stato come da documento ufficiale. Purtroppo il tutto è avvenuto in modo repentino e nel più assoluto disordine con 200 mila afghani, probabilmente futuri perseguitati, che non sono riusciti a mettersi in salvo. Tornando al saggio di Carlos, un altro virgolettato del 2017 vale anche per il 2021: “[La superpotenza americana] prevale militarmente ma poi perde sistematicamente la pace: Afghanistan, Siria, Libia e Iraq lo testimoniano”. Aggiunge che bisogna ritornare indietro di quasi mezzo secolo, al presidente Jimmy Carter, al Trattato di Camp David tra Egitto ed Israele per trovare un’azione diplomatica ben fatta. E sottolinea che la realtà mediorientale è alquanto complessa: “La cosiddetta resistenza della rivoluzione islamista è qualcosa che va ben oltre le contrapposizioni politiche del momento, contesta infatti l’occidentalizzazione e laicizzazione forzata, l’imposizione brutale del modello di Stato nazionale, il libero mercato e la sua mano invisibile, l’individualismo, l’egoismo, e, in ultima analisi, l’essenza dell’individuo secondo la concezione occidentale”.
I Talebani hanno annunciato la conquista della Valle del Panjshir dove era presente l’ultima sacca di resistenza del Paese. il Fronte nazionale anti-talebano si è rifugiato sulle montagne. Sul palazzo presidenziale di Kabul sventola a bandiera dei Talebani; si è insediato il nuovo esecutivo; fanno parte del governo terroristi e ricercati; alcuni sono nella lista nera dell’Onu, dell’’Ue, degli Usa. Il coraggio delle donne afghane: manifestazioni in strada non solo a Kabul; vedremo come andrà a finire. Per come si sono messe le cose si spera che le organizzazioni internazionali stabiliscano nell’immediato contatti con i Talebani per realizzare corridoi umanitari e salvare così vite umane da eventuali ritorsioni, vendette e rancori. Iniziativa italiana in tal senso su un G20 straordinario; si dovrebbe tenere ad ottobre dopo l’assemblea generale dell’Onu prevista per la fine di settembre. In conclusione, ancora una volta la guerra asimmetrica ha dimostrato che la forza in campo più debole militarmente risulta vincente perché difficile da colpire. Trent’anni fa la stessa disavventura in Afghanistan toccò all’Unione Sovietica. Ritirata dell’Armata Rossa. Secondo il Pentagono ci sono tuttora 2000 irriducibili dell’Isis. Allora bisogna intraprendere un altro percorso continuando e approfondendo il dialogo interreligioso e quello culturale per isolare le frange estreme del terrorismo islamico.