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L’economia nella Calabria borbonica dell’Ottocento: analisi e problemi
Scritto da lametino9 Pubblicato in Francesco Vescio© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il XIX secolo con l’industrializzazione ha segnato l’inizio dell’economia moderna a livello europeo e mondiale con modalità ed intensità diverse a seconda delle varie zone geografiche; l’era industriale aveva avuto origine nel secolo precedente in Inghilterra e si diffuse nell’Europa occidentale nel periodo napoleonico per rafforzarsi sempre di più nei decenni successivi per come viene esplicitato nel testo seguente: “L’Europa entrò nel secolo post-napoleonico ancora come un mosaico economico di regioni più o meno sviluppate. Nonostante i tentativi fatti da Napoleone di integrare ed unificare le economie europee intorno a quella della Francia metropolitana, le continue variazioni dei prezzi rimasero un importante indicatore della mancanza di unità economica all’interno del continente europeo. I contorni del mosaico economico europeo non erano cambiati in modo significativo, né sarebbero cambiati fino a quando il boom ferroviario degli anni Trenta dell’Ottocento segnò l’inizio di una nuova fase di crescita economica […] Le nuove economie industriali erano ora una realtà, e le nuove forme di produzione si andavano diffondendo rapidamente dai tessili alla costruzione di macchinari, alla metallurgia e ai prodotti chimici, alle industrie estrattive e alla locomozione a vapore. Le regole del gioco della crescita economica si erano fondamentalmente trasformate: se nel XVIII secolo l’industrializzazione era ancora uno tra i molti mezzi per raggiungere la crescita economica, la presenza di economie industriali nel XIX secolo fece dell’industrializzazione una componente necessaria della modernizzazione economica. Tuttavia, piuttosto che unificare le economie europee, questi sviluppi diedero vita a nuove rivalità nazionali. Ma, nonostante queste divisioni interne, la nuova capacità industriale e commerciale delle economie europee aveva fondamentalmente cambiato le relazioni economiche e politiche tra l’Europa, presto seguita dal Nord America, e il resto del mondo” ( John A. Davis, Tra Espansione e Sviluppo Economico nell’Europa del XVIII Secolo, in ‘Dall’Espansione allo Sviluppo- Una Storia Economica d’Europa- Terza Edizione’, G. Giappichelli Editore, Torino, 2011, pp.199-200).
Il Regno delle Due Sicilie fu coinvolto per lo più negativamente nei profondi mutamenti strutturali dell’economia europea per come indicato nel passo successivo: “Il governo dopo la restaurazione si trovò di fronte gravi problemi di politica economica che si erano aggravati per effetto del blocco continentale durante il decennio, e per la rivoluzione commerciale che aveva profondamente mutato le condizioni di mercato e le correnti dei traffici tradizionali. Soprattutto le strutture economiche si dimostrarono arretrate ed incapaci a vincere la concorrenza di altri paesi che nel frattempo avevano fatto notevoli progressi e dominavano i mercati. I primi e più gravi contraccolpi della rivoluzione commerciale furono avvertiti dall’agricoltura. La coltura del cotone- che durante il decennio aveva registrato una notevole espansione – subì una brusca e grave contrazione per la concorrenza del prodotto americano che con altre derrate giungeva in Europa a prezzi competitivi. Anche il mito che il Regno dovesse essere uno dei granai d’Europa crollò: il grano dell’Ucraina invadeva i mercati europei e le coltivazioni cerealicole del Regno videro scemare paurosamente i redditi […] All’origine della crisi granaria erano motivazioni inerenti ai primitivi metodi di coltivazione […] l’Istituto d’Incoraggiamento del Regno, pur indicando nuove e più progredite rotazioni come rimedio alle rese basse, non potette fare a meno di constatare che << il prezzo dei cereali è ribassato per la quantità che ne viene da Levante, talché poco o nulla si profitta di tali generi…>>. Anche in Calabria la crisi granaria ebbe riflessi negativi sull’economia dei comprensori – come il Marchesato- dove la coltivazione era molto diffusa [...] Anche la sericoltura, non ostante gli sforzi per tornare all’antico livello produttivo, stagnava e si dibatteva nella morsa del fiscalismo e della speculazione […] Ma a parte la seta, l’economia agricola della regione era essenzialmente basata sulla produzione dell’olio e del vino, che coi cereali rappresentavano le risorse principali. La produzione del vino, rispetto al 1806, subì un notevole incremento, di oltre quattro volte, e le eccedenze fecero precipitare i prezzi fino a determinare una grave crisi nel settore. Anche la produzione di olio era in rapido aumento, al quale, non seguì un’adeguata esportazione per la concorrenza degli altri paesi rivieraschi del Mediterraneo. Gli agricoltori avvertirono lo sfasamento tra costi e ricavi e dovettero constatare che trattavasi non di una contingenza passeggera ma di un fenomeno duraturo, legato oltre che alle arretrate strutture economiche anche alle mutate condizioni dei mercati europei e mondiali” ( Giuseppe Brasacchio, La Storia Economica della Calabria – La Calabria dalla Restaurazione -1816- alla Fine del Regno – 1860- Volume Sesto, EffeEmme, Chiaravalle Centrale, 1980, pp.220-221).
Nello stesso periodo vi furono dei processi di modernizzazione di alcuni settori produttivi, che diedero risultati molto significativi nel panorama economico regionale, nel testo che segue si dà conto dei più importanti: “Se con la sua liquirizia la Calabria conquistava i mercati di mezza Europa, con il suo ferro riforniva tutta l’Italia meridionale. Sulla industria siderurgica calabrese, concentrata in una zona di confine tra la provincia di Catanzaro ( Fabrizia con l’annesso villaggio di Mongiana) e quella di Reggio Calabria (comuni di Pazzano e Bivongi) si è scritto molto. Sulla base delle ricerche più recenti si possono ricostruire le principali tappe del rilancio e ricostruzione del complesso a partire dal tardo Settecento fino al periodo di massima espansione (1821-1860). È bene sottolineare che si trattava di un settore produttivo a ciclo integrale, che concentrava in un’area sia pure non molto ristretta, dati i tempi, la natura impervia e montuosa delle località, e le conseguenti difficoltà di comunicazione, tutte le fasi di lavorazione del ferro, con autosufficienza delle materie prime impiegate (minerale, materiale refrattario, fondenti) e delle fonti energetiche (carbone di legna e forza idrica). Inoltre, se in questo complesso statale erano stati creati impianti capaci di produrre ghisa, ferro malleabile, ed armi ( fucili, mitraglie, cannoni, proiettili), nonché, più tardi, macchine utensili e materiale ferroviario; al di fuori di esso, nel vicino centro di Serra San Bruno, era sorta una industria indotta, sulla quale vivevano un migliaio di persone, esperte nell’arte del ferro battuto e soprattutto nella fabbricazione di letti dorati, prodotti in quasi trecento botteghe di maestri artigiani e richiesti su tutti i mercati dell’Italia meridionale. A questi aspetti positivi si contrapponevano fattori negativi che alla lunga avrebbero fatto sentire il loro peso. La localizzazione se dal punto di vista strategico presentava degli indubbi vantaggi, dal punto di vista dei comodi e degli agi degli uomini che vi dovevano lavorare era delle più infelici. A quota elevata, circa mille metri di altitudine, minatori, carbonai e mulattieri lavoravano nei mesi in cui ciò era possibile in un ambiente terribile. A parte i mesi di stasi, quando i monti si coprivano di neve, i mulattieri dovevano trasportare carbone e minerali a dorso di muli per sentieri e tratturi pericolosi. I minatori scavavano il minerale in gallerie strette ed anguste, puntellate da malferme armature in legno, attraverso le quali solo nell’ultimo periodo il trasporto del minerale avveniva a mezzo di carrelli su guide di ferro, mossi però dalla forza umana, perché i muli non riuscivano a muoversi e a sopravvivere in quei budelli mal aerati […] Infine, il principale caricatoio del ferro della Mongiana era il porto di Pizzo, distante 59 Km dal luogo di produzione, non raggiungibile attraverso strada carrabile se non alla soglia degli anni Cinquanta con l’ultimo tratto (Serra- Mongiana) rimasto allo stato di sentiero fino all’unificazione italiana, quando ormai il centro si avviava ad un declino irreversibile […] Comunque, grazie alla produzione del ferro di Mongiana e alla sua lavorazione nelle ferriere di Razzona [Località nel comune di Cardinale, N.d.R.], il Regno delle Due Sicilie aveva conquistato l’autosufficienza anche per i lavori più impegnativi, quali furono i ponti in ferro sul Garigliano ( detto Ferdinandèo ) e sul Calore ( detto Cristino ). La disponibilità di ferro fucinabile favoriva la diffusione in Calabria dell’artigianato del ferro battuto. Proseguendo in questa rassegna delle industrie con lavorazioni accentrate, dobbiamo far menzione delle ‘regie saline di Lungro’. Si trattava in questo caso di giacimenti conosciuti e sfruttati sin dall’antichità. Nel 1815 il governo borbonico li aveva trovati in condizioni disastrose, perché i pozzi, nel volgere dei secoli, erano stati scavati nelle profondità delle viscere della montagna, senza nessun criterio razionale con grave rischio e pericolo degli operai […] Dopo la restaurazione, continuando la gestione statale, tra il 1825 e il 1827 l’Amministrazione diede esecuzione alla costruzione di una galleria orizzontale e di un pozzo verticale, coi quali fu reso possibile lo sfruttamento di banchi profondissimi di puro salgemma, attraverso un circuito d’aria alimentato da mantici e tubi di ferro stagnato. Grazie a queste migliorie e ad altre apportatevi a metà secolo, la salina produsse tra i 45 mila e i 63 mila quintali di sale all’anno, in grado di soddisfare il fabbisogno delle province di Cosenza e Catanzaro, nonché di parte della Basilicata, tenendo presente che il sale serviva non solo per uso alimentare, ma anche come uno dei più importanti conservanti [...] Ma il capitalismo presente nella Calabria del primo Ottocento dava segni di vitalità nella misura in cui riusciva in alcuni settori (liquirizia e cuoio) a penetrare nei mercati stranieri, o si sforzava in altri (trattura e filatura della seta) di stare al passo con il progresso tecnico. Era destinato, invece, a soccombere lì dove (siderurgia) sia la localizzazione degli impianti, sia i sistemi di lavorazione erano superati ed i prodotti erano concorrenziali solo grazie alla protezione doganale” ( Michele Fatica, La Calabria nell’Età del Risorgimento, in ‘ Storia della Calabria- Moderna e Contemporanea- Il Lungo Periodo ’, Gangemi Editore, Roma – Reggio Cal., 1992, pp. 486-494).
Il quadro complessivo della situazione economica regionale durante il Regno delle Due Sicilie è così delineato nel passo che segue: “Rilevati gli ostacoli oggettivi che si presentano alla borghesia calabrese, e più in generale a quella meridionale, sulla strada delle modificazioni che si sarebbero dovuto o potuto apportare alle strutture economiche e sociali, non vanno sottaciuti gli aspetti negativi intrinsici ed i vizi della borghesia stessa […] che resta perciò prigioniera di un retaggio che la rende debole, spesso meschina, incolta, incapace ad affrontare il progresso tecnologico, incapsulata entro gli angusti confini del povero microcosmo municipale” (Giuseppe Brasacchio, op., cit., p.299).
In sintesi, da quanto sopra esposto, si può inferire che nel periodo preso in esame l’economia calabrese mostrò segni innovativi solo in alcuni settori, ma restarono nel complesso arretrate specialmente l’agricoltura e la pastorizia, i settori produttivi fondamentali dell’economia regionale.