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L’economia calabrese nel primo decennio dell’Unità tra declino e innovazione
Scritto da lametino9 Pubblicato in Francesco Vescio© RIPRODUZIONE RISERVATA
Nel presente scritto si cercherà di dar conto dell’influenza che l’Unificazione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia tramite l’Impresa dei Mille e il Plebiscito ebbe sull’ economia della Calabria nel primo decennio dell’Unità ed, in particolare, si darà uno spazio considerevole oltre che ai fattori produttivi interni alle connessioni rilevanti con il sistema economico nazionale ed internazionale.
Il quadro economico complessivo e tendenziale è riportato nel passo successivo: “ Tra la metà del Settecento ed i primi decenni dell’Ottocento la rivoluzione industriale segnò l’apertura di una nuova èra nella storia dell’uomo. Essa fu l’effetto di una serie di innovazioni convergenti nell’agricoltura, nel commercio, nei trasporti e soprattutto nell’industria, che agirono cumulativamente in Inghilterra prima che altrove. Il fondamentale fattore di discontinuità fu il rapido incremento della capacità produttiva grazie all’utilizzazione di tecniche sempre più perfezionate e allo sfruttamento di nuove fonti energetiche. La quantità di beni e servizi a disposizione degli europei crebbe in misura fino ad allora inimmaginabile. Prima della rivoluzione industriale il lentissimo aumento della produttività vincolava la crescita della popolazione. Con l’industrializzazione i beni aumentarono più rapidamente degli uomini, gli standard di vita migliorarono costantemente e la vita economica conobbe continue trasformazioni ed accelerazioni tuttora in atto […] Dal secondo Ottocento l’industrializzazione si è imposta come condizione necessaria della crescita. Industrializzazione e sviluppo hanno finito per identificarsi. Ma solo per un’area limitata del globo. Mentre infatti la ricchezza è cresciuta nei Paesi coinvolti nella rivoluzione industriale, essa non ha subito mutamenti di rilievo per la maggior parte degli abitanti della Terra. Si sono determinati così divari di reddito come mai era accaduto nei secoli passati, duranti i quali le differenze fra i livelli di vita di territori diversi e lontani erano rimaste tutto sommato modeste” (Giovanni Luigi Fontana, Lo sviluppo economico nell’Europa del XIX secolo, in ‘AA:VV, Dall’Espansione allo Sviluppo – Una Storia Economica dell’Europa’, G. Giappichelli Editore, Torino, 2011, p. 251 ).
In tale contesto storico europeo gli aspetti economici più rilevanti nel nostro Paese sono così delineati nel brano seguente: “Nel periodo preunitario le profonde differenze nelle strutture economiche, nelle dotazioni infrastrutturali, nei livelli di istruzione e nelle condizioni socio-culturali tra le varie parti della penisola vennero dunque ad approfondirsi e resero assai difficile ed onerosa l’opera dei governi impegnati a porre le basi del nuovo Stato unitario, nel mentre si doveva ancora completare l’unificazione politica del Paese (terza guerra d’indipendenza e annessione del Veneto nel 1866) […] Sotto il profilo industriale l’Italia era penalizzata dalla mancanza di carbone, dall’arretratezza del mercato interno, dall’insufficiente accumulazione di capitali e dai sistemi di finanziamenti, dal basso livello dell’istruzione e da un quadro culturale non favorevole ad un mutamento strutturale del sistema economico” (Ivi, p.286).
Nel testo che segue viene delineata la profonda differenza tra le aspettative popolari e le concrete realizzazioni che furono conseguite grazie all’Unità ed, inoltre, vengono evidenziate le notevoli disuguaglianze che si osservarono tra le varie regioni: “L’influenza dell’unificazione sull’economia italiana deluse alcuni che erano indotti dagli aspetti romantici ed eroici del Risorgimento a riporre troppo in alto le loro speranze. C’era stata l’illusione popolare che l’indipendenza avrebbe automaticamente portato a più alti salari e avrebbe fatto diminuire il costo della vita, forse anche le ore di lavoro e le tasse. L’abolizione delle tariffe furono senza dubbio un vantaggio, così come lo furono il sistema metrico decimale e la circolazione monetaria uniforme. Ciononostante, i benefici a lunga scadenza dovettero essere pagati al prezzo di alcune perdite immediate. Napoli per esempio, come Firenze e Milano, accusò subito il colpo, e con la scomparsa della sua corte perdette molti servizi pubblici, appalti e cariche burocratiche che in precedenza le avevano conferito una prosperità artificiale. Napoli era la maggior città europea dopo Londra, Parigi e Pietroburgo, e prima del 1861 era stata la capitale di un regno di otto milioni di abitanti, che possedeva una marina mercantile di gran lunga superiore a quella del Piemonte ed una flotta militare più potente. Ma in conseguenza dell’improvviso regime protezionistico di cui le industrie napoletane avevano goduto prima del 1861, il Mezzogiorno andò incontro a gravi perdite quando la nuova Italia eliminò le industrie marginali, lasciando via libera alla concorrenza del Nord. Alcuni industriali tessili meridionali erano abituati ad una protezione del 100%, mentre nel 1860 il Piemonte aveva ridotto i suoi dazi a circa il 10% del valore delle merci […] Le industrie del Nord, già avvezze al libero scambio, vennero a trovarsi in una favorevole posizione di concorrenza quando le altre regioni dovettero ridurre il loro dazio sul ferro da venti o trenta lire al chilogrammo a tre soltanto. Si disse persino che la generale estensione della bassa tariffa doganale piemontese avesse lo scopo deliberato di addolcire la pillola dell’unità per il Nord, che otteneva grazie ad essa un nuovo ed indifeso mercato. La concorrenza eliminò in questo modo dalla circolazione parecchi prodotti tipici del Sud, e persino in alcune città settentrionali da poco annesse, come per esempio: Modena e Parma, l’industria locale si dimostrò troppo fragile” ( Denis Mack Smith, Storia d’Italia- dal 1861 al 1969, Edizione Euroclub Italia SPA. Su licenza della Casa Editrice Laterza, Roma-Bari, 1979, pp. 81-83).
L’economia calabrese risentì delle conseguenze, positive e negative, dell’allargamento del mercato sia a livello nazionale sia a quello internazionale, le note che seguono tendono ad esplicitare i fenomeni più eclatanti verificatesi nel periodo storico sopra indicato. Una notevole novità di carattere economica viene esplicitata nel testo successivo: “Gli Anni sessanta dell’Ottocento aprirono una breve ma straordinaria fase di congiuntura che coinvolse, per quasi un quinquennio, alcuni settori agricoli della Calabria. E di tante province del Mezzogiorno. Aveva inizio con quel decennio, un’esperienza destinata a suscitare improvvise ed effimere speranze: l’avventura del cotone. Com’è noto, la guerra civile americana privò le industrie manifatturiere europee, in primo luogo quelle dell’Inghilterra, della sua materia prima più importante […] Erano le terre meridionali d’Europa che ora dovevano rifornire di cotone le fabbriche tessili, nel frattempo estesesi in misura incomparabile rispetto agli inizi del secolo. Il blocco delle esportazioni americane fu quasi immediato e per ciò rapidissime le conseguenze nel Vecchio Continente. Tra il 1862 e il 1864 il valore del cotone sui mercati aumentò del triplo e del quadruplo e la forte incetta che se ne faceva su tutte le piazze provocò un’insolita febbre [...] In quell’occasione il Ministero dell’agricoltura, attraverso i suoi organi periferici e grazie all’impegno delle stesse varie accademie e istituti legati all’agricoltura, seppe essere tempestivo e produsse un’ampia opera di propaganda. La crescente ascesa dei prezzi e il visibile aumento della domanda fecero il resto. Nelle campagne della Calabria la nuova eccitazione speculativa portata dal cotone dilagò rapidamente. Furono allora riconvertite colture, trasformate intere piantagioni di granturco, talora dissodate terre e macchie, per piantarvi la nuova miracolosa pianta che cresceva dalla primavera all’autunno […] Alla mostra internazionale di Londra i cotoni calabresi, insieme ai campioni di altre province meridionali, figurarono degnamente [...] Ma il grande slancio, che aveva mobilitato tante energie, trascinato uomini e organizzazioni, cadde come d’incanto con la stessa rapidità con cui era sorto. Il ritorno dei cotoni americani sulla scena dei mercati europei […] determinò il crollo dei prezzi e la convenienza delle coltivazioni venne subito a mancare” (Piero Bevilacqua, Uomini, Terre , Economie, in ‘Storia –Le Regioni dall’Unità a oggi – La Calabria’, Einaudi, Torino,1985, pp. 230-232).
Le caratteriste peculiari dell’economia calabrese nel loro complesso sono esposte negli aspetti più importanti nel brano seguente: “In linea di massima, l’estensione della tariffa doganale piemontese, all’indomani dell’unità, non produsse effetti immediati degni di rilievo sull’economia manifatturiera della Calabria. Manca, nelle testimonianze dei contemporanei di quegli anni, qualche significativa voce di recriminazione che registri reazioni apprezzabili alle novità prodotte dal trapasso di regime […] In realtà, la scarsa presenza e vivacità di voci recriminatorie originava fondamentalmente da un dato essenziale, destinato a mutare assai lentamente, il carattere chiuso e isolato del mercato calabrese, separato fisicamente dalle grandi vie di traffico nazionali, e al tempo stesso incapace di esprimere una significativa domanda interna di prodotti industriali. È questa una prima osservazione che getta uno spiraglio di luce sulla durata reale che le manifatture domestiche e l’industria rurale ebbero nella Calabria nei decenni postunitari e al tempo stesso anticipa alcuni tratti della peculiare resistenza che essa riuscì a esercitare alle pressioni disgregatrici del mercato […] Vero è, tuttavia, che almeno in un ambito di attività produttive- per il quale pure la Calabria si era, in età preunitaria, distinta – le scelte economiche dei governi liberali non furono senza conseguenze, anche immediate. L’industria mineraria fu indubbiamente quella che, per essere più immediatamente legata alle commesse governative, sentì più repentinamente e più sensibilmente gli effetti della nuova situazione. Diversi piccoli esercizi vennero allora chiusi o abbandonati. Ma entrò soprattutto in crisi un’antica isola di industria mineraria che in età borbonica aveva prodotto quantità anche rilevanti di materiale ferroso: le ferriere di Ferdinandea e di Mongiana” (Ivi, pp. 249-250).
In sintesi da quanto sopra esposto si può inferire che l’economia calabrese nel periodo esaminato fu sostanzialmente innovativa per la coltivazione ed esportazione del cotone, si avviò verso il declino per l’industria del materiale ferroso e stagnante per le altre attività produttive.