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La Calabria nel regno d’Italia: lotta politica e disagio sociale
Scritto da Lametino 5 Pubblicato in Francesco Vescio© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il biennio 1860-61 segnò un momento storico significativo per l’Unità d’Italia e la Calabria fu coinvolta in modo particolare nell’Impresa dei Mille e tanti calabresi presero parte attiva agli eventi, che portarono all’unificazione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia. Nel presente scritto si tratterà della situazione generale italiana prima dell’unificazione, di quella del Meridione ed, in modo particolare, della società calabrese; si darà conto, inoltre, dell’assetto normativo dello Stato unitario nei suoi aspetti fondamentali. Il quadro complessivo del Paese è sinteticamente delineato nel brano successivo: “L’ Italia era un’unità territoriale molti secoli prima di diventare uno Stato nazionale]…] Le frontiere naturali dell’Italia sono più o meno definite, seguendo su tre lati il mare e sul quarto la lunga catena delle Alpi […] Fino al 1859 le varie regioni erano divise politicamente, con differenti tradizioni storiche di governo e legislative. I pesi, le misure e la moneta variavano da regione a regione: il ducato napoletano era diverso dall’oncia siciliana, lo scudo papale dalla lira piemontese. Lungo il corso del Po esistevano decine di barriere doganali – esempio significativo di quel municipalismo o campanilismo che impediva l’unificazione nazionale e il progresso dell’agricoltura e dell’industria. Fra tutte queste regioni, la matrice della nuova Italia fu il Piemonte, situato a nord-ovest, con Torino come capitale. Il Piemonte era politicamente unito alla Sardegna e dal 1815 possedeva pure l’importante centro marittimo di Genova, che era il grande rivale del porto d Trieste, appartenente all’Austria […] Il Sud assolato e la Sicilia formavano una regione a parte, e ciò sia per ragioni storiche e climatiche che per il carattere dei loro abitanti. Questa differenza tra Nord e Sud era radicale. Un contadino della Calabria aveva ben poco in comune con un contadino piemontese, mentre Torino era infinitamente più simile a Parigi e Londra che a Napoli e Palermo; e ciò in quanto queste due metà del paese si trovavano a due livelli assai diversi di civiltà. I poeti potevano pure scrivere del Sud come del giardino del mondo, la terra di Sibari e di Capri, e uomini politici che non mettevano il naso fuori dalla porta potevano anche crederci, ma di fatto la maggior parte dei meridionali vivevano nello squallore, perseguitati dalla siccità, dalla malaria e dai terremoti. I Borboni, che avevano governato Napoli e la Sicilia prima del 1860, erano tenaci sostenitori di un sistema feudale colorito superficialmente dallo sfarzo di una società cortigiana e corrotta. Avevano terrore della diffusione delle idee ed avevano cercato di mantenere i loro sudditi al di fuori delle rivoluzioni agricola e industriale dell’Europa settentrionale. Le strade erano poche o non esistevano addirittura ed era necessario il passaporto anche per viaggi entro i confini dello Stato. In quell’ annus mirabilis [= anno straordinario, meraviglioso, N.d.R.] che fu il 1860 queste regioni arretrate furono conquistate da Garibaldi e annesse mediante plebiscito al Nord” (Denis Mack Smith, Storia d’Italia dal 1861 al 1969, Laterza, Roma- Bari, 1979, pp. 14-16).
Nel testo successivo si fa una disanima critica degli entusiasmi suscitati dall’unificazione e delle complesse questioni che si ponevano ai governanti: “Nel giro di due anni, dal marzo del 1859 al giugno del 1861, è sorto in Europa uno Stato nuovo. Si estendeva su 259.320 chilometri quadrati ed è popolato da 21 milioni e 777.000, con una media di 85 abitanti per chilometro quadrato. Vive prevalentemente di ciò che produce la terra: gli agricoltori sono 8 milioni, i lavoratori dell’industria e dell’artigianato 3. Non è ricco ma crede di esserlo perché è convinto che la povertà delle sue regioni più destituite [= private di…, carenti…di infrastrutture e servizi, N.d.R.] sia dovuta esclusivamente alla neghittosa insipienza dei tiranni che l’avevano governate. La libertà e l’unità renderanno al paese le ricchezze perdute, i beni per tanti secoli nascosti” (Sergio Romano, Storia d’Italia dal Risorgimento ai Nostri Giorni, Longanesi &C., Milano, 1998, Edizione speciale per il Giornale, p.24). Si pose il problema della forma istituzionale dello Stato e la scelta fatta viene così esplicitata nel brano successivo: “Le vicende meridionali ebbero un’influenza decisiva sulla orma dello Stato. La disparità delle condizioni economiche e della cultura politica suggeriva un sistema fondato sull’autonomia delle regioni e delle città. Era questo, all’inizio del 1861, il programma del governo Cavour. Nel marzo di quell’anno Marco Minghetti, ministro dell’Interno, presentò alle Camere un progetto che prevedeva un largo decentramento burocratico, l’elezione dei sindaci e il trasferimento a organi locali di alcune responsabilità che il sistema piemontese riservava al potere centrale. Era una riforma, dettata dalle predilezioni della classe dirigente, dalla sua << anglomania>> e dalla constatazione che le Italie erano troppo numerose perché una sola amministrazione, nella capitale, potesse minuziosamente regolare la vita della periferia. Ma il progetto Minghetti non fu neppure votato. Pochi mesi dopo un nuovo presidente del Consiglio, Bettino Ricasoli, accantonò la grande riforma <<autonomista>> ed estese a tutto il regno l’ordinamento sardo-piemontese. Il provvedimento soppresse i regimi transitori che Torino aveva instaurato nelle province annesse e mise fine alla precarietà della transizione, ma rovesciò la filosofia politica a cui si era ispirata sino a pochi mesi prima la classe dirigente italiana. L’Italia, da allora, fu <<prefettizia>>, e il ministro dell’Interno fu da quel momento, con il presidente del Consiglio, il più autorevole esponente del governo. Il protagonista della svolta non fu, come sarebbe lecito supporre, piemontese. Un emiliano, Minghetti, aveva progettato la nascita di uno Stato decentrato e <<localista>>, ma un toscano, Ricasoli, decise bruscamente di sacrificare le aspirazioni delle nuove province e della propria regione” (Sergio Romano, op.cit., pp.56-57). Nel testo successivo viene esplicitato in modo specifico la differenziazione politica della deputazione parlamentare calabrese e le sue peculiari criticità: “Di questa prima deputazione calabrese, se proprio si vuol tentare una valutazione in termini di luci ed ombre, facevano parte uomini molto <<fattivi ed energici> e che erano consapevoli, ancorché moderati, dell’importante funzione dei <<gruppi democratici>> […] Spesso i contrasti nascevano, invece, con i deputati provenienti dalle file dell’emigrazione, non pochi dei quali avevano alquanto annacquato le posizioni della vigilia ed ostentavano ora una sorta di spocchia e di << sufficienza>> tutte piemontesi. Ciò procurava, naturalmente, fastidio a quanti avevano maturato ben diverse esperienze di milizia e di lotte rimanendo ed operando <<sul campo>> […] Ma ora, giunto il momento della <<prosa>>, rivelavano tutti i limiti di un ceto politico impreparato ed impari ai nuovi compiti” (Francesco Volpe, La Calabria nell’Età Liberale, in ‘ Storia della Calabria Moderna e Contemporanea- Il Lungo Periodo,’, a cura di Augusto Placanica, Gangemi Editore, Roma- Reggio Cal., 1992, p.600). La divaricazione tra il ceto politico, in generale, e la società era molto marcata per come esplicitato nel passo che segue: “I problemi della Calabria erano tutti gravi ed investivano tutta la struttura della società calabrese, nelle sue varie componenti. Qual era la struttura della società calabrese all’indomani dell’Unità? In Calabria la distinzione tradizionale della società in clero, nobiltà, e borghesia, non ha senso. Francesco De Sanctis diceva giustamente: << a quel tempo era il regno dei galantuomini; i contadini, in povertà e in servitù, erano trattati come asini… >>.
La distinzione era tra galantuomini e contadini. La nobiltà scarsa, non viveva nella regione., e quella che ci viveva si interessava solo della rendita fondiaria. Non era una nobiltà illuminata, come, per esempio quella lombarda, che si poneva all’avanguardia del progresso sociale e civile, che esercitava attività imprenditoriali, che si interessava di commercio, di industrie, di bonifiche, di miglioramenti di colture e via di seguito. Le case dei nobili non rappresentavano certo centri di cultura. La nobiltà era una classe incolta e parassitaria […] Eppure questa nobiltà, nel suo immobilismo, esercitava come un potere di attrazione, in quanto tutta la borghesia ostentava nobiltà. Non solo i grossi proprietari, ma anche i piccoli, anche i poveri impiegati erano soddisfatti del <<don>> accanto ai loro nomi: residuo spagnolesco, vero orpello alla miseria. Per il clero calabrese, credo sia sempre valida anche per il periodo dopo il ’60, la divisione tra alto e basso. L’alto clero, di estrazione sociale elevata, era conservatore, moderato, conformista, cioè secondo gli ordini gerarchici. Il basso clero, di estrazione sociale inferiore, era vicino alle classi umili da cui usciva e ne conosceva dolori e miserie, ma poco poteva fare, vittima anch’esso di un’amara realtà sociale. La borghesia come classe sociale a sé stante non esisteva. Non aveva coscienza ed orgoglio di far parte di una classe sociale ben distinta. Tuti i borghesi volevano essere considerati nobili, galantuomini. Una borghesia attiva, intraprendente, fiduciosa nei propri mezzi e nel proprio lavoro, noi non l’abbiamo avuta. Forse l’inerzia non era tutta colpa di questa classe che sembrava aspettasse tutto dall’alto e mancava di iniziative e di intraprendenza. In Calabria mancavano tutte le strutture sociali, storiche e geografiche per una iniziativa individuale. Predominava la più completa sfiducia. Intanto tutto il peso lo sopportavano i contadini. Il solo ceto produttivo di ricchezza. La nostra era una società contadina. Tutti vivevano sulla terra: la terra la lavoravano i contadini, ma di tutte le ricchezze che producevano essi non vedevano neppure le briciole: erano vere bestie da fatica, esseri inferiori, cui nulla era dovuto. Galantuomini e contadini erano separati da un abisso” (Domenico De Giorgio, Classi sociali e partiti politici in Calabria dopo l’Unità, in ‘Deputazione di Storia Patria per la Calabria, Aspetti e Problemi di Storia della Società Calabrese nell’Età Contemporanea’ – Atti del I convegno di studio- Reggio Calabria 1-4 novembre 1975, Editori Meridionali Riuniti, Reggio Calabria, 1977, pp. 22-24). Va ricordato che la stragrande maggioranza della popolazione non aveva allora il diritto al voto, riservato a coloro che avevano un censo abbastanza elevato ed i contadini erano quasi tutti analfabeti.