L’economia calabrese dopo l’Unità: dal protezionismo al liberalismo

Scritto da  Pubblicato in Francesco Vescio

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Nel presente scritto si cercherà di delineare, negli aspetti più rilevanti, le conseguenze che l’Unità del Paese ebbe sull’economia calabrese; alcuni rilievi riguarderanno l’’intero Meridione, ma si cercherà d’individuare alcune situazioni proprie della Regione ad esempio: le Ferriere di Mongiana, la salina di Lungro, la produzione di tessuti come quelli di seta e il lavoro delle tessitrici molto diffuso in diversi comuni calabresi. I motivi decisivi che spinsero verso il processo unitario sono esposti nel brano successivo: “Insomma, fra il Sette e l’Ottocento gli stati preunitari si andavano differenziando – a seconda delle loro vicende politiche e dei regimi agrari prevalenti- in maniera piuttosto significativa, con sfumature e colori che […] ritroveremo all’origine dei divari regionali nell’Italia unita. Il punto però è che, anche quando amministrati bene, data la loro ridotta dimensione i singoli stati rimanevano inadeguati a sostenere la competizione internazionale […]. Visti in questa prospettiva, non vi è dubbio che il Risorgimento e la creazione di uno stato nazionale furono un’ingegnosa risposta politica – da tempo attesa- che i ceti dirigenti italiani (élite agrarie, borghesie cittadine, intellettuali) seppero dare alle sfide della modernizzazione. Le sfide provenivano dalle due grandi rivoluzioni, quella politica francese e quella industriale inglese, che avevano avviato un cambiamento senza precedenti, dapprima in Europa e poi anche in altre parti del globo, e che in sostanza vedevano l’affermarsi del nuovo mondo borghese, tanto sul piano economico quanto su quello politico, a scapito dell’antico ordine aristocratico.” (Emanuele Felice, Ascesa e Declino – Storia Economica d’Italia, il Mulino, Bologna, 2015, p. 41”. Al fine di esplicitare le differenze fondamentali fra la Monarchia sabauda e quella borbonica dal punto di vista istituzionale, politico, economico e finanziario si riporta il testo successivo: “Con l’adozione dello Statuto Albertino, nel marzo del 1848, il Regno di Sardegna diventa una monarchia costituzionale. Sotto la guida del conte di  Cavour , ministro dal 1850 e poi capo del governo quasi ininterrottamente dal 1852 al 1861, negli anni seguenti si dispiega una profonda opera riformatrice, che in ambito economico investe il commercio, la finanza, le infrastrutture sociali (l’istruzione) ed economiche (ferrovie), favorisce la modernizzazione dell’agricoltura e lo sviluppo dell’industria; ma contempla anche la riforma dei codici di procedura penale e civile, punta con forza alla separazione tra stato e Chiesa. Il processo non è sempre lineare, ci furono battute d’arresto e contrasti, rimasero influenza e prerogative della Corona che recenti studi critici sottolineano. Ma resta il fatto che la direzione di marcia è chiara: ed è una direzione modernizzatrice, che chiama i ceti imprenditoriali (di cui lo stesso Cavour era espressione) alla diretta gestione dello stato. Nel Regno delle Due Sicilie l’esperimento costituzionale avviato nel 1848 tramonta nel giro di un anno. La repressione che segue è feroce: migliaia di liberali vengono incarcerati o costretti all’esilio, buona parte della Sicilia deve essere riconquistata con la forza. In ambito economico, la monarchia assoluta dei Borboni aveva promosso una qualche iniziativa industriale, ma solo al riparo di forti protezioni doganali: era affidata quasi interamente a capitali e imprenditori stranieri, oppure all’intervento diretto dello stato come nel caso del Reale Opificio Borbonico di Pietrarsa [Frazione del Comune di Portici, N.d.R.), officine metalmeccaniche che all’Unità raggiungevano un migliaio di addetti fra civili e militari. Tutto il resto era rimasto pressoché immobile. L’esigua borghesia endogena continuava a distinguersi per la sua mentalità assenteista e speculativa. In agricoltura, anche se la feudalità era finalmente stata abolita (in età napoleonica, nel 1806) il latifondo a  coltura estensiva non era stato scalfito e anzi pare ne fosse uscito addirittura rafforzato; a peggiorare le cose, le ritorsioni estere per le protezioni all’industria danneggiavano proprio le produzioni agricole più innovative e orientate all’esportazione, dalla vite all’olio. Al di là del clamore per la ferrovia Napoli - Portici, inaugurata nel 1839 e quindi prima dei moti carbonari del 1848, l’impegno nelle infrastrutture era risibile, mentre spicca l’assenza di ogni sforzo per modernizzare gli assetti fiscal, il sistema finanziario e l’ordinamento dello stato. Le ragioni di questo immobilismo erano già chiare ai contemporanei […] e risultano essenzialmente politiche: il timore di suscitare nuovi malcontenti induceva a mantenere una bassissima pressione fiscale, la quale però impediva ogni opera riformatrice. Negli ultimi anni al potere, i Borboni si illusero di poter perpetuare l’ancien régime. Ma era appunto un’illusione, che servì solo a peggiorare la situazione. Alla fine, la Costituzione concessa nel 1848 verrà riportata in vigore nel giugno 1860, nel pieno della spedizione dei Mille e quando ormai era troppo tardi per le sorti della monarchia” (Emanuele Felice, Perché Il Sud È Rimasto Indietro, il Mulino, Bologna, 2013, pp. 18-19).

Le conseguenze più significative che si verificarono nel Mezzogiorno e particolarmente in Calabria successivamente all’Unità sono sinteticamente delineate nel passo che segue: “ All’indomani dell’unificazione, per rafforzare l’opera unitaria,  già raggiunta in campo politico, e per integrare i diversi particolarismi, il governo emanava una nuova tariffa doganale. Mutuata da quella liberoscambista del Piemonte ed attuata, però, in modo radicale e repentino e senza modifiche, essa veniva estesa a tutti i territori formanti il Regno d’Italia. La soppressione delle dogane, spezzando l’isolamento dei singoli Stati, nel creare da una parte un ampio mercato nazionale e nel consentire contemporaneamente una maggiore mobilità di uomini e di capitali, determinava un effetto economico, a dir poco, rivoluzionario. I nuovi provvedimenti, la cui efficacia e la cui estensione a regioni deboli hanno suscitato un fitto dibattito storiografico, privavano l’apparato produttivo del Meridione di alcuni elementi di sviluppo, non tutelavano il tessuto preesistente e mortificavano le potenzialità locali. Le conseguenze della nuova politica cagionavano, così, la cessazione di alcune industrie e l’interruzione di diverse attività, che non solo decaddero ma finirono, addirittura, con lo scomparire per mancanza di capitali e di capacità imprenditoriali [. . .] Nel 1863 gli stabilimenti di Ferdinandea e di Mongiana , affidati dopo l’occupazione ad un funzionario nominato direttamente dal governo, dapprima vennero declassati e poi d’accordo sul << rifiuto della gestione diretta governativa>>  definitivamente chiusi per l’impossibilità di << pagare gli stipendi agli operai>>. Scompariva, così, a causa anche delle difficoltà di reperimento delle materie prime e della diminuzione del ferro nella miniera di Pazzano, un’industria che, per la produzione di ghisa, aveva collocato la Calabria al secondo posto in Italia dopo la Lombardia. Subito dopo l’Unità nessuna attività industriale assumeva in Calabria una dimensione in grado di modificare la struttura precapitalistica della regione. Nessuna industria si levava al di sopra delle altre. Le poche aziende manifatturiere erano tutte allo stadio artigianale o a carattere domestico e pochissime erano quelle con una sensibile presenza di forze lavorative. Nelle industrie presenti le tecniche lavorative restavano antiquate e con forza motrice prodotta per lo più dagli animali. Lo sbocco commerciale dei manufatti lavorati nella regione non oltrepassava i confini locali e le scarse possibilità, poi, di accedere al credito impedivano la trasformazione in più moderni opifici industriali […] Nel catanzarese le uniche aziende di un certo livello si trovavano a Serra San Bruno [Attualmente tale Comune è sito nella provincia di Vibo Valentia, N. d. R. ] : una segheria di legname e una fabbrica di pasta di legno, con una produzione annua aggirantesi sui 12.000 quintali di cellulosa […] Nel cosentino la più alta concentrazione industriale rimaneva nella salina di Lungro: una miniera di sale, aperta fin dai tempi dei Romani e migliorata, nel 1860, con l’adozione dei più perfezionati strumenti di perforazione e di aereazione  […] Un posto ben determinato e non certamente trascurabile occupava, nel quadro delle attività economiche regionali, l’industria della seta. Nata nel 1600 e sviluppatasi velocemente ( a Catanzaro  si contavano quasi 1000 telai ) essa acquistò, nel corso degli anni, una buona tradizione, tale da accomunare la Calabria alle regione più sviluppate, come la Lombardia. Nonostante la discreta quantità del prodotto e la buona tecnica di lavorazione, l’attività serica, la cui produzione era strettamente legata al mercato estero e alla congiuntura, non riuscì però a collocarsi a livello di fabbrica e le sue filande, armonizzandosi con le condizioni di arretratezza sia delle campagne che dei centri urbani, non superarono mai il ristretto circuito locale[…] All’indomani del 1860 l’allargamento del mercato nazionale non aveva favorito certamente il perfezionamento delle culture. I grandi proprietari ed affittuari, piuttosto che correre rischi, avevano preferito investire i loro capitali nell’acquisto della grande proprietà demaniale e dei titoli di Stato. Nel determinare così un rallentamento nel ritmo di sviluppo della ricchezza e nel legittimare in questo modo il possesso di tutte le terre usurpate che non erano riusciti a farsele riconoscere dai Borboni, essi ottenevano, invece dal nuovo Stato, il quale bisognoso di denaro, aveva messo a loro disposizione anche tutti gli strumenti legislativi per ratificare l’usurpazione”. (Giuseppe Masi, La Calabria nell’Età Liberale, ‘in Storia della Calabria Moderna e Contemporanea – Il Lungo Periodo’- a cura di Augusto Placanica, Gangemi Editore, Roma-Reggio Cal., 1992, pp. 561-565, passim).   Da quanto sopra esposto si può inferire che in Calabria dopo l’unificazione, dal punto di vista dell’economia regionale, si verificarono conseguenze negative nel settore industriale in quanto venne meno la politica tradizionalmente protezionistica dei Borboni e nello stesso tempo si avvantaggiarono quanti comprarono a prezzi convenienti i beni demaniali o ecclesiastici posti in vendita dallo Stato per ragioni di bilancio.

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