L’emergenza sicurezza salverà il Tribunale: Non solo bombe

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

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Iuffrida_matitadi Giovanni Iuffrida

Il Tribunale di Lamezia è utile: il servizio della giustizia, per una città che si rispetti, non potrebbe essere altrimenti. Ma, soprattutto dagli anni Settanta in poi, ha dimostrato di essere simbolo di sicurezza? La città antica si cingeva di robuste mura per difendersi dagli attacchi esterni e dall'impeto del  torrente Piazza. I nemici venivano combattuti, con coraggio, all’arma bianca o con morchia bollente; l'acqua, per la sua fluidità, era inafferrabile e inarrestabile. Oggi, la città moderna, quella perbene, ha i nemici al suo interno e si difende, non sempre con successo, nelle aule di Tribunale. In Calabria, regione delle emergenze continue, ci sono luoghi e luoghi di celebrazione della giustizia. Qualche esempio: la Procura di Reggio Calabria ha aperto un fascicolo che si è  arricchito fino alla richiesta di rinvio a giudizio per corruzione elettorale, offrendo l’occasione per raccontare uno dei modi utilizzati dalla politica per fare proseliti dalle nostre parti. A Catanzaro, invece, il dossier relativo alla selezione interna del personale regionale, avviata nel 2002, è rimasto a prendere polvere tra gli scaffali degli uffici giudiziari del capoluogo. Per non parlare di altre emergenze.

La Lamezia di oggi deve la propria fortuna alla saga dei rom e all'emergenza mafia. Il Tribunale, se rimane, ne è la dimostrazione. Evidentemente, all’alto livello di mafiosità si contrappone l’altezza dell’edificio del Tribunale che incute timore, paura alle persone perbene. È, infatti, l’edificio più brutto che Lamezia abbia mai partorito, imitazione malriuscita di tanti tribunali sparsi qua e là lungo la penisola con le facciate che scimmiottano uno spartito, ripetitivo, come i rintocchi di una campana stonata a due sole note. Una distanza enorme tra la Lamezia “di ieri”, quella precedente al 1945, e quella di oggi. Subito dopo l‘Unità d’Italia, la Lamezia “di ieri”, rafforzava il ruolo di città di servizi, grazie al nuovo modello organizzativo della pubblica amministrazione: l’Ospedale civile, la Caserma militare, il Tribunale, l’Ufficio del Dazio, l’Ufficio doganale, e altri uffici statali decentrati ne arricchivano (fino al periodo borbonico piuttosto che come centro amministrativo, il centro Nicastro era noto soprattutto per la presenza di strutture repressive, quale il carcere mandamentale, che peraltro produceva effetti gravi sulla popolazione locale, per le ricorrenti infezioni petecchiali che si diffondevano dalla centralissima postazione di corso Numistrano). Più che mandamentale era un carcere petecchiale. Dalla presenza del Tribunale postunitario la città si attendeva molto: un salto di qualità. Ma la secolare storia della giustizia locale non sembra aver prodotto trasformazioni  significative della comunità locale, se la mafia c’era e non è stata eradicata. Lo stesso Tribunale nasceva invece eradicato, cioè nel senso che non riusciva a mettere radici: cambiava continuamente sede, forse per depistare i delinquenti. Per un periodo venne insediato in Palazzo Mancini, poi a Palazzo Nicotera-Sasso, infine nell’attuale edificio di Piazza della Repubblica progettato, come espressione maxima dell’Ufficio tecnico comunale, e ubicato ai margini di un’area che avrebbe dovuto costituire il centro della città, secondo l’idea del progettista Plinio Marconi, noto architetto di scuola romana.

Negli anni immediatamente successivi alla sua realizzazione, è stato un susseguirsi di attentati urbanistici alla sua funzionalità perché, in realtà, man mano che si susseguivano le amministrazioni comunali, si registravano tentativi di soffocarlo rosicchiando progressivamente l’area circostante libera su cui si sarebbe dovuta realizzare la più grande piazza della città. Il Tribunale, praticamente, è stato pian piano derubato dell’ossigeno, cioè dell’ampio spazio che avrebbe dovuto conferirgli dignità architettonica e civile. Ma questo, per Lamezia era un’eluttabilità. È nella natura delle cose di questa città. A Vibo Valentia la cosa è ben diversa, se il suo Tribunale, realizzato durante il periodo fascista, nel contesto di un progetto di una qualificante ristrutturazione urbanistica della città, è balzato agli onori della cronaca nazionale, tanto da essere presentato come una delle migliori opere del regime nel contesto della Mostra della rivoluzione fascista (“Eur ’42”).

Lamezia, non solo è luogo di sottrazioni, come ben dimostra l’area prevista nel progetto originario di Plinio Marconi per Piazza della Repubblica; ma è anche palestra in cui si esercitano furti, di automobili e in appartamento, con servizio ovviamente a domicilio. Anche i politici di professione ringraziano le cosche: grazie alla loro presenza è facile issare la bandiera dell’antimafia e fare carriera. Mafia e antimafia assurgono a motivo di dibattito, riflessioni, più o meno profonde, lunghe, anzi lunghissime: argomento preferito per distogliere l’attenzione sull’evidente incapacità progettuale di concreto contrasto del fenomeno mafioso e di promozione dello sviluppo sostenibile. È molto più facile parlare di mafia, di rom, di Terzo settore, delle lumache invalide, mentre le retrovie (portaborse e gregari) sono autorizzati a far sparire i fondi di partito e ad elargire favori agli amici elettori, come dimostra Paolo Pollichieni in “Casta calabra” (Falco Editore, 2012). È un gioco facile, perché tutti sono concentrati sulla mafia e sulle bombe che intontiscono tutti.

La mafia dà una giustificazione a tutto, è come un ossigeno universale: la permanenza del Tribunale, i politici professionisti dell’antimafia, le forze dell’ordine, le strutture preposte a vari livelli di controllo sono gli elementi di contrasto che trovano nella presenza asfissiante della criminalità una motivazione di esistenza. L’industria della sicurezza lavora. Un territorio, caratterizzato da una perenne emergenza criminalità, avrebbe bisogno di istituzioni eticamente forti, numericamente e qualitativamente. Ma, in questo periodo di crisi, le cosche alzano il tiro, pressando le poche attività economiche che, al limite della sopravvivenza, non riescono nemmeno a pagare il pizzo oltre che le tasse di Stato. Per questo, gli estortori minacciano, incendiano auto, intimidiscono con bombe, che lasciano il segno non solo sulle porte dei negozi, ma anche sulla stabilità psicologica delle vittime dei soprusi della mafia e dello Stato. Poi una fiaccolata. Poi un'altra bomba. Poi un'altra fiaccolata. Fino all'infinito.

Una città doppia e contemporaneamente tetragona al cambiamento, figlia anche della verità della teoria della “razza maledetta”, non comoda scorciatoia per spiegare la differenza tra nord e sud, ma come verità di una differenza fondamentale. Perché Lamezia è molto lontana da Loano, in Liguria – terra dei Grimaldi, che nel Settecento calabrese hanno modernizzato i sistemi di trasformazione dei prodotti agricoli –, dove la Forestale e la Polizia Municipale, su disposizione del pubblico ministero Danilo Ceccarelli, hanno messo i sigilli a due terzi delle costruzioni autorizzate in zona agricola dal 1999.

Lamezia è, invece, una città delle “emergenze” continue, dove lo spettacolo desolante di cartelli di divieto di balneazione e di inibizioni dell’uso ricreativo delle spiagge è dimostrativo della difficoltà della crescita civile della comunità. Una città che non è cambiata molto dal punto di vista sociale, se il livello di criminalità locale è cresciuto esponenzialmente: Lamezia, per esempio, ha, tra poliziotti (220), finanzieri (164) e carabinieri (103), 500 agenti circa; cioè un agente ogni 140 abitanti (circa 70.000), ovvero un agente ogni 35 famiglie. Dati che dovrebbero rassicurare tutti i cittadini in materia di sicurezza. Ma, evidentemente non è così se il livello della criminalità organizzata è altissimo ed è trasfuso nella confusa crescita urbana, dominata dal fenomeno dell'abusivismo edilizio (oltre duemilioni di mq di superficie edificata in assenza di autorizzazione) e nel cuore di un ciclo economico di bassa congiuntura in contraddizione con i numerosi sportelli bancari e supermercati, cattedrali del consumo, in continua crescita.

Tutto questo è, nella realtà concreta, il frutto dei condizionamenti della linfa vitale dalla mala pianta della mafia, che vede la politica come strumento in cui convergono le iniziative dei poteri economici forti che schiacciano la crescita civile della comunità, in una sorta di mafiofilia politico-istituzionale. Tanto da non apparire sufficiente scrivere slogan, all’ingresso dei municipi, del tipo “qui la mafia non entra”; bisognerebbe scrivere “fateci sapere piuttosto da dove deve uscire”, dalle case comunali e dalle processioni, come ha “ordinato” il vescovo della diocesi di Mileto-Tropea-Nicotera, nel giorno di Pasqua del 2011. La grave crisi istituzionale rappresentata da due scioglimenti del Consiglio Comunale di Lamezia ha costituto un momento di destabilizzazione per la società civile, senza soluzione di continuità, essendo il controllo del territorio da parte della mafia, che ha un ruolo significativo nella formazione delle rappresentanze istituzionali, una concorrenza non sempre reale con l’autorità pubblica. E ancora si attendono risposte da una giustizia giusta.

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