Lamezia fa rima con Venezia

Scritto da  Pubblicato in Giovanni Iuffrida

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Iuffrida_matita.jpgNon basta la lotta allo smercio della droga per poter dire che la mafia è stata sconfitta. A Lamezia le mafie vengono di fatto cullate anche con le parole; perché è una città in cui la comunità è pervasa – a qualsiasi livello organizzativo – da modalità 'ndranghetiste, nonostante qualche voce istituzionale abbia dichiarato che, grazie alle recentissime operazioni di polizia, sarebbero state consegnate le chiavi della città alle persone oneste. Bugie che fanno ovviamente male alla verità e alla lotta ai colletti bianchi che pervadono la città più della cocaina. A tal punto che è auspicabile la chiusura del Tribunale che non riesce a modificare una realtà drogata, da tutti i punti di vista.

Non è certamente sufficiente arrestare qualche pusher per poter dire che Lamezia sia diventata una città tranquilla. Con una recente riflessione ad alta voce, Francesco Scoppetta facilita la comprensione della vera sfortuna di Lamezia che è stata l'aver avuto, con studiata volontà, “una sequenza di istituzioni non adatte al contesto. Guardate l'elenco – continua – di tutti i procuratori della Repubblica che abbiamo avuto”. Il suo intervento va oltre, con considerazioni la cui lettura merita attente riflessioni, utili chiavi di interpretazione delle ragioni del mancato decollo della città.
In sostanza il vero problema di Lamezia è il suo basso profilo culturale, che costituisce il limite di crescita qualitativa della città, parallelo al modestissimo humus istituzionale governato, con chiara evidenza, da poteri occulti. Forse in questo il potente capoluogo regionale può avere influito molto, favorendo sempre l'elezione e la nomina per Lamezia di una modesta rappresentanza istituzionale per impedire alla città di fare il salto culturale necessario. Infatti, si è potuto assistere a un continuo regresso e a eterni dibattiti su questioni volutamente irrisolte: rom disseminati ovunque, diffusi quanto l'illegalità, con il suggello delle istituzioni locali avvezze alla convegnistica più che al coraggio necessario per il governo del territorio (un esempio illuminante è stato un ex prefetto di Catanzaro, oggi agli onori della cronaca per il suo discutibile profilo stigmatizzato persino da Renzi e dal ministro Alfano).

Le gravi connivenze tra istituzioni locali e provinciali che hanno di fatto reso impraticabile qualsiasi ipotesi di città vivibile, la dicono lunga sui “cento passi” indietro che ha fatto Lamezia, pronta a minimizzare il suo dissesto sociale e culturale. Ne sono prova le ripetute ammoine istituzionali che, per esempio, hanno polverizzato la comunità rom, rendendo Lamezia un'unica immensa periferia, e le demolizioni (troppo puntiformi) di opere edilizie abusive per far dimenticare abusi autorizzati. Un modo per nascondere con un'azione legale eclatante le illegalità in corso d'opera. Non c'è, quindi, da meravigliarsi se il “Piano di prevenzione della corruzione” del Comune parte da una certezza (“il Consiglio comunale è stato sciolto due volte per infiltrazioni mafiose”) e da un dubbio (“tutti i Settori dell'Ente potrebbero essere oggetto di permeabilità”). In effetti il Piano fotografa bene la storia di questo Comune e indirettamente indica una responsabilità precisa (la Procura della Repubblica non ha individuato aspetti penali tali da impedire ad amministratori e a consiglieri comunali di riproporsi per poi sostenere amministrazioni presentate come legalitarie) e, di conseguenza, i dipendenti comunali “pagano” il difetto dell'amministrazione della giustizia che non ha sciolto il nodo della pervasività istituzionale della mafia. Una responsabilità precisa, perché da qui nasce la Lamezia che si conosce: città in cui la parola “regola” è solo un tic, diventato persino fastidioso. Tant'è che non si spiega dove siano state nascoste le regole nella gestione delle risorse, umane e territoriali. Una storia a sé è quella del personale comunale, più volte ricostruita dalle organizzazioni sindacali anche attraverso episodi puntuali: nell’attribuzione di incarichi tecnici a un ex assessore, senza la regolare autorizzazione dell’Ente di appartenenza; nell’attribuzione di incarichi semidirigenziali “ad personam”; nell’approvazione a consuntivo dei Contratti decentrati; nella corruzione pervasiva del territorio con il ricorso all'interpretazione; nelle modalità di applicazione del “Piano di prevenzione della corruzione”, corrotto, cioè guastato anche dalla mobilità a richiesta. Corrotto è anche chi si abbandona a chicchessia. Piero Bevilacqua, un notissimo storico di sinistra originario di Catanzaro, il 19 giugno ha scritto, a proposito della corruzione, che questa coincide, a qualsiasi latitudine, con tutte le forme di voto di scambio nell'esercizio delle funzioni di potere e non è solo elargizione di mazzette: “Chi è il potere pubblico? In genere un sindaco, gli amministratori locali, parlamentari, dirigenti di partito, vale a dire rappresentanti del ceto politico. Questa nuova figura del nostro tempo, senza più ideali a cui ispirarsi, al momento di entrare in contatto con le imprese, subisce una metamorfosi incontenibile. I modesti politici locali e nazionali, immersi nella normale routine, di colpo si ritrovano detentori di un potere enorme, quello di concedere una porzione del territorio all'uso del capitale privato”. Ma, per Piero Bevilacqua, Lamezia fa solo rima con Venezia o ha la necessità di un Mose per l’alta marea dell’illegalità?

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