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Il primo romanzo organico scritto sulla mafia in Italia. “La famiglia Montalbano”, di Saverio Montalto
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DI FRANCESCO BEVILACQUA
In concomitanza con la rassegna di libri sulle mafie “Trame”, organizzata dal Comune di Lamezia Terme per i giorni tra il 22 ed il 26 giugno, ripubblichiamo la recensione del libro di Saverio Montalto (pseudonimo di Francesco Barillaro), considerato il primo libro scritto in Italia (ancor prima de “Il giorno della civetta” di Leonardo Sciascia) avente ad oggetto la mafia. La recensione è uscita sul numero 142 di aprile 2010 del nostro giornale.
Ancora un libro di narrativa. Ancora la narrativa come strumento letterario per conoscere la Calabria. Avremo tempo per i saggi, per quei pochi, grandi libri geografici e storici che sono stati dedicati alla nostra regione, per i molti libri su storie e luoghi specifici che ultimamente vengono editati, per i libri dei viaggiatori stranieri, questi ultimi, per altro, a me molto cari. L’ennesima insistenza sulla narrativa deriva dalla quasi casuale scoperta della utilissima riedizione, da parte dell’editore Periferia, di un libro che era divenuto oramai introvabile anche sul mercato antiquario e di cui solo gli addetti ai lavori conoscevano l’esistenza. Mi riferisco a La famiglia Montalbano di Saverio Montalto, pseudonimo di Francesco Barillaro (1898/1977), a mio parere uno dei massimi scrittori della letteratura regionale e non solo, paragonabile qualitativamente, ad Alvaro, a Perri, a De Angelis, a La Cava.
Il libro è esso stesso un primato. Scritto tra il 1939 ed il 1940, come confessò lo stesso Barillaro in un’altra sua grande opera, Memoriale dal carcere, esso venne pubblicato solo nel 1961, inizialmente a puntate sulla rivista Nuovi Argomenti, della quale era direttore Alberto Moravia, su segnalazione di Mario La Cava, che di Barillaro fu sempre amico ed estimatore, essendo l’uno di Bovalino e l’altro di San Nicola di Ardore, entrambi paesi della Locride. La famiglia Montalbano, per chi non lo sapesse, è uno dei nomi con la quale veniva chiamata la mafia nei primi decenni del Novecento. Ed in effetti il romanzo è interamente imperniato sulla mafia della Locride, sulla prima mafia, sulla sua trasformazione da “onorata società” in vera e propria organizzazione criminale subito dopo la prima guerra mondiale in ambienti non ancora contaminati da quel fenomeno e che pian piano – come abbiamo visto anche nel recensire I fatti di Casignana di Mario La Cava – finirono, per una concomitanza di ragioni storiche, politiche e sociali, ad esserne completamente sopraffatti ed impregnati. Il primato sta, dunque, nel fatto che, contrariamente a quanto normalmente si crede, e cioè che il primo libro italiano che si fonda su una storia di mafia sia stato Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia, del 1961, il riconoscimento, in questo senso, va invece proprio a La famiglia Montalbano di Saverio Montalto.
Probabilmente, il libro, anche per il suo intrinseco, altissimo valore letterario – intuito da La Cava e Moravia – sarebbe stato pubblicato ben prima, se Barillaro non avesse avuto una tragica vicenda personale. Pur essendo egli un uomo colto e pacifico (si era laureato a Napoli e faceva il veterinario), in un maledetto giorno di novembre del 1940, dopo l’ennesima lite con il cognato (in odor di mafia), che maltrattava sistematicamente e brutalmente la sorella amatissima di Barillaro e che nell’occasione voleva aizzarlo contro la moglie, rea, a suo dire di avere una tresca con il medico di famiglia, colto da un raptus (uscirà anni dopo un altro romanzo dal titolo, appunto, Raptus) sparò nel mucchio uccidendo la sorella e ferendo moglie e cognato. Processato, si difese accusando i parenti della moglie di comportamento arrogante e mafioso. Nei primi tempi della prigionia scrisse Memoriale dal Carcere, che, sempre su segnalazione di La Cava, venne pubblicato su Nuovi Argomenti e fu poi edito da Lerici nel 1957 e perfino tradotto in Inglese e pubblicato a Londra per i tipi di Hutchinson. La sua vicenda umana colpì a tal punto La Cava, che lo scrittore gli dedicò il dramma Un giorno dell’anno.
Fin qui la vicenda umana di Barillaro alias Montalto ed il primato del libro. Veniamo ora al contenuto di quest’ultimo ed al suo straordinario valore letterario.
La storia è ambientata in un paesino calabrese, evidentemente della Locride, dove due genitori, il ricco massaro Luigi Napoli e la moglie Betta attendono trepidanti il ritorno dalla grande guerra dell’unico figlio, Cola. Il Buon Dio vuole che Cola si salvi dalla carneficina che ha portato tanti figli di un Sud annesso all’Italia con la forza a sacrificarsi per una patria che non sentivano loro, e la generosa Betta, proveniente anch’essa dal popolino, dà dimostrazione di generosità, distribuendo agli indigenti del paese derrate alimentari in segno di ringraziamento per il ritorno del figlio. Ma Cola trova cambiamenti. Un giovane della sua età, Gianni della Zoppa, che aveva da piccolo lavorato per il padre di Cola ed era poi emigrato in America, vi aveva fatto carriera criminale e, costretto a rientrare in paese, aveva qui importato la mafia, affiliando bulli e nullafacenti, tiranneggiando la gente ed imponendosi come capo bastone. Nella sua ingenuità e con il coraggio assunto in guerra, Cola diviene antagonista aperto di Gianni e, in un primo momento, gli tiene fermamente testa, aiutato in questo, anche dal progetto di matrimonio che i suoi genitori avevano abilmente intessuto per lui con la rampolla della nobile famiglia del paese composta dal curato e dal fratello medico, sino a quel momento considerata intoccabile anche dai mafiosi. Gianni è costretto a rimandare i propositi di vendetta nei confronti di Cola. Ma Betta, con l’istinto della madre, capisce l’ostilità strisciante e subdola di Gianni e cerca di ingraziarselo, all’insaputa del figlio. L’ingenuità ed il coraggio di Cola esplodono ancor di più quando contribuisce all’arresto di un altro mafioso tornato dall’America che, in mezzo alla gente aveva sfregiato un pover’uomo. Gianni e un altro mafioso di un paese vicino, Angelo Bello, pur con le mani legate per l’imminente fidanzamento di Cola, escogitano, così, un ingegnoso e cinico inganno per impedire il fidanzamento stesso ed avere via libera per l’eliminazione di Cola.
Ricordano che questi, prima di partire, era innamorato di un’avvenente giovane contadina, Carmeluzza, la quale, però, durante la sua assenza è divenuta, insieme alla stessa madre, amante di Angelo Bello. Rimasta incinta, Carmeluzza è stata costretta a partorire nella cittadina della costa, segretamente, nella mani di una levatrice, e ad affidare il bambino ad una famiglia di Serra San Bruno. D’accordo con Carmeluzza e la madre, Angelo Bello, organizza con un chirurgo della cittadina, una piccola operazione per far apparire ancora vergine la ragazza e dà incarico a questa di adescare proditoriamente Cola mentre è a caccia, con le sue arti seduttive. Cola è venuto, intanto a sapere della tresca di Carmeluzza con Bello – di dominio pubblico - ed ha deciso di accelerare il fidanzamento ufficiale con l’altra ragazza, che si tiene effettivamente nella grande casa del curato, con soddisfazione di tutti. Ma è infelice, perché segretamente ama ancora Carmeluzza e non trova nell’altra ragazza alcuna corrispondenza. Per cui l’adescamento riesce perfettamente: Carmeluzza finge di essere offesa per il comportamento di Cola che non l’ha più cercata e giura che la tresca è frutto solo di maldicenze. Anzi, si offre di dar prova a Cola della sua verginità con una messinscena che ottiene l’effetto sperato, grazie all’operazione chirurgica subita dalla ragazza. In più, la madre di Carmeluzza finge, a sua volta, di sorprendere per caso i due nell’atto di fare l’amore e Cola, di buon grado, rompe il fidanzamento con l’altra ragazza e si fidanza con Carmeluzza.
Il fatto produce lo sconforto dei genitori di Cola, che intuiscono l’inganno ma nulla possono contro la testardaggine di Cola, e causa, nel contempo, l’offesa vendicativa del curato e della famiglia dell’altra ragazza, che giungono persino ad invitare in casa Gianni della Zoppa per fargli capire, implicitamente, che nulla obietterebbero, se accadesse qualcosa a Cola. Intanto monta la maldicenza della gente, che non si spiega come Cola sia potuto cadere nella trappola. Anche perché Carmeluzza è una vera maliarda e, pur stando con Cola, non smette di amoreggiare con Angelo Bello all’insaputa del primo. La Famiglia Montalbano ha tuttavia ancora le mani legate perché Carmeluzza ha un fratello, Giò, anch’esso affiliato alla mafia, che aveva intuito lo sgarro contro sua sorella compiuto da Bello e proprio per questo era stato spedito in America, dove, contro ogni aspettativa, si era fatto la fama di gran criminale. Saputo dell’imminente matrimonio con Cola, li aveva entrambi raccomandati ai suoi sodali in Calabria, compresi Bello e della Zoppa. L’inattesa uccisione di Giò in America, libera le mani dei mafiosi. Tanto più che Cola, ricevuta una lettera confessione della levatrice, nel frattempo emigrata in alta Italia, rompe il fidanzamento con Carmeluzza. Questa, da donna maliarda, diviene un vero e proprio demonio e, insieme alla madre, non paga di avere intentato causa a Cola e di avere ottenuto da lui un ingente risarcimento, non si fa scrupolo di usare la sua avvenenza per convincere anche i più riluttanti tra i componenti della Famiglia Montalbano a decretare la morte di Cola. Anche in questo caso non svelo l’epilogo a beneficio del lettore.
Ciò che colpisce del libro, su un piano storico e sociologico, è il passaggio dalla arcaica “onorata società” all’associazione per delinquere, ai metodi spietati, ingannatori, alle trame occulte e vigliacche per colpire le forze sane della società contadina dell’epoca, la collusione dei ceti nobiliari e professionali. E, d’altro canto, l’ingenuità proprio di tutti coloro che si battevano contro le ingiustizie sociali nel non comprendere l’entità e la spietatezza del fenomeno, nel non sapersi organizzare per contrastarlo, nel non prendere le dovute cautele. Anche qui – come Nei fatti di Casignana di La Cava – è evidente l’incredibile sottovalutazione da parte degli apparati statali che, dal fascismo in avanti, si sarebbe trasformata in connivenza. Una chiave di lettura importante del fenomeno mafioso. Secondo me ben più importante, per comprenderne, le cause, di qualunque ricerca storica o di qualunque saggio sociologico o antropologico.
Sul piano letterario, siamo di fronte ad un romanzo pressoché perfetto, scritto con un ritmo che non ha mai un momento di stanca, di rilassamento, adeguato perfettamente all’epoca ed all’ambiente storico ed umano che descrive. Uno di quei libri che si legge tutto d’un fiato, insomma. I ritratti psicologici delle persone sono straordinari, a partire dai genitori di Cola, che campeggiano altissimi, nella loro eticità, per passare ai giovani come Cola, Carmeluzza, Gianni, anime perse in una società che andava già allora dissolvendosi nei suoi valori tradizionali, sino alle figure sinistre e spietate dei capi bastone, che preludono ai moderni capi ‘ndrangheta. Il linguaggio è semplice ma non cronachistico. Montalto sa quando e quanto deve affondare nella descrizione dei luoghi o degli animi senza danneggiare il ritmo e senza indulgere in virtuosismi artificiosi. E, cosa non da poco, dimostra che anche senza troppe contaminazioni dialettali (oggi molto di moda), è possibile raccontare una storia che rende perfettamente l’ambiente, l’atmosfera di quell’epoca in quei luoghi. Una delle più belle storie ambientate in Calabria, insomma, alla quale chiunque è venuto dopo deve un grande tributo.
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